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Sette / Corriere Della Sera

Cantine & Listini - Il boom dell’eno-finanza
E tu cosa scegli, la Borsa o la bottiglia ? Aste miliardarie. “Future” sulle etichette. Annate vendute in anteprima. E adesso c’è persino chi sta pensando a come quotare sui mercati i nomi più importanti di un settore del “made in Italy” che vale, da solo, 16.000 miliardi. Ma il mondo del vino è davvero pronto a sbarcare a Piazza Affari e dintorni? Tra i protagonisti c’è chi giura di no. Ecco perché.

La borsa è finita in cantina, ha titolato, poco tempo fa, un apprezzato periodico di enogastronomia. E non si riferiva al recente tracollo degli indici finiti ben più giù dei sottoscala domestici. No, il concetto era assolutamente positivo e sintetizzava il periodo fortunato che, dal punto di vista finanziario, stanno conoscendo vigne, viti e bottiglie. Concupite, le prime, quando sono ancora terreno da impiantare (“Oramai siamo a prezzi folli”, osserva Ezio Rivella, ex amministratore delegato di Castello Banfi, il più importante produttore di Brunello: “A Montalcino si va sui 600 milioni l’ettaro quando, 20 anni fa, si comprava a 5”). Valutate, le seconde, da serissimi uffici che, abitualmente, trattano quotazioni e collocamenti (Mediobanca e Meliorbanca, per fare due esempi). Contese a colpi di milioni, infine, le ultime, liquidi, vetri e tappi, materializzazione finale della produzione (bordolesi normali, magnum, jeroboam, imperiali, fino alle colossali Nabucodonosor da 15 litri) nelle battute d’asta che, finora, erano più avvezze al Sassetta cha al Sassicaia.
Succede, in quest’ultimo caso, il prossimo 30 novembre con la prima asta di vini organizzata da Christie’s in Italia (al Four Season di Milano) con 800 lotti e un valore complessivo stimato attorno al miliardo e mezzo. Una vera e propria “ubriacatura” finanziaria?
Il fenomeno, in realtà, non è semplice. Intanto c’è un dubbio preliminare. Lo esplicita Francesco Mazzei, amministratore delegato di una delle più apprezzate fattorie toscane, il Castello di Fonterutoli: “Attenzione agli entusiasmi eccessivi. Oggi abbiamo molto appeal, ma siamo anche tra i pochi settori che tirano”. E poi bisogna individuare le forme in cui il mondo del vino (lento, minuzioso, conservatore per definizione) si può davvero incrociare con le traiettorie veloci e mutevoli degli interessi e dei progetti finanziari. Alla base stanno semplici dati di fatto. Paradossali, a prima vista: meglio va il vino e meno se ne produce; si riduce la terra impiantata a vigneti ed è sempre più cara; aumenta il valore dell’export e si contrae il volume. Il tutto mentre il giro d’affari del settore vola (ormai siamo sui 16 mila miliardi di lire, 8.2 miliardi di euro) e un’analisi di Mediobanca calcola al 36% la valorizzazione dei capitali investiti nel settore lungo gli ultimi cinque anni. Un dato, notano gli addetti, che ricorda molto il made in Italy della moda negli anni Ottanta. Il paradosso, però, si spiega facilmente: è la fascia più alta a tirare il mercato.
Quindi si abbandonano produzioni di qualità incerta e ci si dedica a vini migliori, più richiesti ma anche più laboriosi, spesso originati in zone scomode e costose per la lavorazione, quasi sempre meno fertili dal punto di vista dei grappoli adatta. Non per nulla una delle migliori aziende italiane più importanti, la Zonin, ha puntato su una caratterizzazione netta, con una linea “alta” firmata dal patron, Gianni Zonin, a sfruttare al meglio di vendemmie ormai estese (l’ultimo acquisizione è in Puglia, nella zona del Primitivo di Mandria) in ben sette regioni italiane.
L’attimo più o meno fuggente della fortune generale, però, obbliga a ragionamenti di più lungo periodo. Ed è qui che le opinioni si dividono. Paolo Panerai, editore specializzato in campo finanziario ma anche vignaiolo affermato, invoca la finanziarizzazione del settore, spera nei “future”, auspica quotazioni in Borsa: “Ciò avviene quando si generano valore e margini significativi. E questo è sicuramente il caso del mondo del vino”. Ma lo stesso Zonin, per esempio, è più cauto: “Ancora in Italia non si sono tradizioni importanti su grandi vini. Che sono essenziali per rendere operativi certi strumenti. Ci arriveremo, ma bisogna creare una base. Oggi credo ancora di più all’enoturismo…”
“Il settore è in una fase dinamica e il modo di concepire il vino è cambiato perché è cambiato il consumatore, più attento, alla qualità e al vino come scelta culturale”, spiega Ambrogio Folonari, titolare di un’azienda con tenute in Chianti e in Friuli e 22 miliardi di fatturato previsto per il 2001: “Servono investimenti forti e quindi servono strumenti finanziari. Finora procurarsi risorse è stato semplice, il rialzo dei patrimoni immobiliari garantiva il rapporto con le banche. Ma c’è spazio anche per nuove iniziative. Come c’è spazio, secondo me, per conoscere sul piano della qualità”.
Quanto agli strumenti finanziari più evoluti, in realtà, siamo ancora nel mondo dei progetti. Pierdomenico Gallo, presidente di Meliorbanca, ha parlato di “future” per vini di grande produzione, destinati alle aziende, o per i vini di nicchia, rivolti al consumatore. Mazzei è abbastanza scettico: “Per ora non vedo un grande giro di strumenti finanziari. In genere le banche puntano su altri tipi di offerte. Per esempio, comprare assieme un’azienda e responsabilizzare noi per valorizzarla”. In realtà, proprio Meliorbanca non ha ripetuto l’offerta di qualche anno fa per un prestito obbligazionario con warrant su vini particolari. E quella, nel campo, è stata l’unica esperienza italiana, visto che un’iniziativa simili a Mediobanca con vini Antinori e Frescobaldi non aveva avuto la caratteristica del collocamento con offerta pubblica. “I prodotti finanziari”, nota un operatore di Borsa nonché viticoltore appassionato, “hanno bisogno di liquidità, cioè di grandi quantitativi di prodotto. E questo, in Italia, si raggiunge di rado”. Siamo distanti, insomma, da cose come il “Bordeaux index”, un vero e proprio indice borsistico applicato ai grandi vini francesi. E siamo lontani, anche, dalle dimensioni di colossi vinicoli come quelli del Nuovo Mondo. “A volte guardo bilanci di aziende Usa come Mondavi e Gallo e rabbrividisco”, aggiunge Mazzei: “Venti, trenta volte maggiori degli italiani più grandi. E poi sono realtà nate già con mentalità imprenditoriale. Cifre impressionanti, pensando al nostro futuro qualche paura ti viene. Del resto non è un caso che tutti i grandi Chateau bordolesi non siano più a proprietà familiare. Con gli stranieri, quindi, lo scontro non si gioca solo sul prodotto ma anche sul modo di stare nel mercato. La via giusta, da noi, potrebbe essere quella di conglomerati fra aziende dalla fisionomia simile”.
Massimo d’Alessandro, wine-maker e professore di design alla Sapienza di Roma, punta invece ad aumentare la produzione: “Ci vorrebbe un vino se possibile eccezionale, ma con almeno 200 mila bottiglie e a un prezzo abbordabile. Un conto è essere nella lista dei vini, un conto è essere riordinati”. Parere opposto a quello di Stefano Colombini Cinelli, anche lui produttore di Brunello: “Si moltiplicano i piccoli che hanno grande successo. Le economie di scala nel vino non pagano quanto l’efficienza del piccolo”.
Mentre i produttori riflettono e si dividono, gli appassionati hanno meno dubbi. Appena prima dell’asta di Christie’s, un appuntamento simile è organizzato per la terza edizione da Gambero Rosso in collaborazione con la casa fiorentina Pandolfini, all’Hilton di Roma, il 25 novembre: qualcuno fra i pezzi offerti potrebbe spuntare alcune decine di milioni. Fra le star di Christie’s, invece, un Sassicaia 2000 venduto en primeur con certificato a firma di Nicolò Incisa della Rocchetta. Anche qui, però, Ezio Rivella (che lanciò per primo le vendite en pimeur con 45 mila bottiglie della vendemmia ’95 prevendute l’anno successivo e consegnate nel 2000) fa qualche distinguo: “Guai a credere in un investimento facile. Comunque, ad andare bene sono sempre i grandi nomi, non aspettiamoci rivalutazioni clamorose su etichette sconosciute. In genere è bene che il vino lo compri chi lo beve, non chi vuole rivenderlo".

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