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Speciali / Corriere Della Sera

«Il vino? Ha i tempi dei figli». La crescita della vite, le attese della vendemmia: le stagioni di produttori ed enologi ... «Per annegare il rancore e cullare l’indolenza di tutti i vecchi maledetti che muoiono in silenzio, Dio, nel rimorso, aveva creato il sonno; l’Uomo vi aggiunse il Vino, sacro figlio del Sole!». Così Charles Baudelaire in Le vin des chiffoniers (il vino degli straccivendoli) in La Fleur du Mal nel 1857 tesse le lodi del «nettare d’uva» utilizzato per stordire l’individuo e fargli dimenticare le amarezze della vita. È probabile che lo straccivendolo bevesse un vin du pais , un rosso robusto di circa 14 gradi che era la bevanda dei meno abbienti ma anche il contatto con la «divinità». «Una delle ragioni che mi ha portato a intraprendere questa professione - accenna Daniele Zangelmi, giovane promessa dell’enologia italiana - è stata la vicinanza filosofica con gli dei. Lavorare un frutto così antico come l’uva, rispettare i suoi tempi ciclici e immutabili, mi ha da sempre affascinato». Poi l’incontro con Giacomo Tachis. «Sono un ammiratore di questo maestro - continua l’enologo dell’azienda Isimbarda - e mi piace la sua filosofia. Per fare un buon vino, ripete spesso, bisogna rispettare l’alta qualità dell’uva senza aggiungere nessun "additivo" chimico. È necessario ascoltare il vino e coccolarlo come un bambino. Il tempo è fondamentale sia al momento della vendemmia che nell’affinamento». Ma quanto dura un vino? «È quasi un mistero - accenna il condirettore del Gamberorosso Daniele Cernilli -. Impossibile scoprire le ragione per cui un vino resta tale e migliora nel tempo o si trasforma in qualcosa di imbevibile. La grandezza di un’etichetta non sempre dipende dall’acidità, dall’equilibrio del residuo secco o dalla nobiltà dei tannini, gli anti-ossidanti naturali. Un vero rebus. A volte si pensa che un Bordeaux o un Chianti dell’86 sia una grande annata e poi si scopre, strada facendo, che l’85 è decisamente superiore». Tracciare un identikit del vino che duri nel tempo è forse un compito più agevole. «Ci sono dei Riesling - conclude il critico - a bassa gradazione alcolica, circa otto gradi, che durano per oltre 50 anni mantenendo la struttura e il ricordo di quella particolare uva. Ci sono bottiglie che possono essere conservate per lunghi periodi. Poi al momento dell’apertura non sono più quel tipo di vino, si sono trasformate in altro». Bisogna trattare il vino come un frutto ancora vivo: è l’affascinante teoria del professore Alberto Zaccone, ordinario di analisi sensoriale alla Cattolica di Piacenza. «Come un qualsiasi prodotto della natura - afferma - anche il vino ha un arco di esistenza. Non dura per sempre come capita invece alla vite. Ci sono tracce di vitacee che risalgono a circa 130 milioni di anni fa. Insomma, ai tempi dei dinosauri esisteva già la vite. Quest’anno è stato prodotto il rosso di Pompei dai vitigni Piedirosso e Sciascinoso citati da Plinio il Vecchio: è resuscitato, così, un gusto deciso, forte». Ma era dunque questo il sapore del Piedirosso e dello Sciascinoso nell’antichità? «No - risponde il sommelier Fabio Scarpitti -. La vite è la stessa, ma il vino, lavorato con le tecniche di oggi, è certamente diverso. I nostri antenati sentivano in bocca sapori di selvatico, di cuoio, di tabacco. I romani erano soliti bere vini fortemente ossidati ai quali noi non siamo affatto abituati». Abituato a fornire un prodotto di altissima qualità è il Conte Lucio Tasca d’Almerita che, insieme ai figli Giuseppe e Alberto, con i vini della tenuta Regaleali, nei pressi di Vallelunga ai confini tra le province di Caltanissetta e Palermo, esalta la tradizione vitivinicola siciliana. «Un produttore - spiega - deve avere una nozione del tempo piuttosto dilatata. Quando si pianta una vite non bisogna avere mai premura. I primi anni la vedi crescere e non fai altro che accudirla paternamente, prestandole sempre moltissime cure senza pretendere nulla. Dopo il terzo anno arriva il frutto e da quello realizzi il primo vino che sarà bevuto dopo cinque anni dall’impianto». Come si vive l’attesa della raccolta? «Con grande trepidazione - prosegue - perché in tre mesi, dal 10 agosto al 10 ottobre, bisogna scegliere il momento giusto sia dal punto di vista della maturazione del prodotto sia da quello climatico. Se raccogli l’uva in un giorno in cui piove hai complicato il lavoro di tanti uomini. Se invece si procede il giorno dopo con il terreno inzuppato d’acqua la fatica è doppia. Insomma, bisogna essere tempisti e anche fortunati». Raccolta l’uva, il più è fatto. «A quel punto - conclude l’erede della grande famiglia palermitana - mi sento più tranquillo. Avere il mosto nei tini e gestirlo gradatamente è compito dell’enologo. L’importante è che gli si fornisca sempre un’uva di grande qualità».

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