Prima e dopo il mercato, prima e dopo i dazi, prima e dopo i gusti, prima e dopo il cambiamento climatico, prima e dopo il vino, c’è la vigna. Che disegna il paesaggio. Che è patrimonio aziendale e al tempo stesso collettivo. Che è strumento produttivo e vita da accudire. Che è anche investimento di capitali, e parte integrante di un progetto enologico. Non solo per i vitigni che si scelgono, in base a terreni, volontà, idee. Ma anche per il tipo di allevamento, il sesto di impianto, l’orientamento, l’esposizione, e così via. E in una fase storica in cui tutto cambia ed evolve più velocemente che mai, anche la vigna - che vive inesorabilmente di cicli lunghi (mediamente dall’impianto alla prima annata di raccolto da cui si produce vino passano almeno 3-4 anni) - deve avere la capacità di essere dinamica, “adattiva”, e saper esprimere uve che diano origine a “vini di luogo” ed identitari, distintivi, che per molti sono gli unici che sopravviveranno al cambiamento dei consumi, al contrario di tanti vini generici e “commodities”. Una vigna capace, insomma, di rimanere se stessa, ma anche di adattarsi, senza stravolgimenti. Capace, per esempio, di avere una grande flessibilità nella gestione della chioma, ma anche di avere la possibilità di adattare il tipo di allevamento all’età della pianta, al cambiamento climatico, alla sempre maggiore scarsità di acqua e non solo. Una vigna pensata secondo il principio dell’“architettura dinamica”. Come la definisce Marco Simonit, alla guida, insieme a Pierpaolo Sirch, della “Simonit & Sirch - The Vine Master Pruners”, che, con il loro metodo di potatura, dal Friuli, hanno conquistato il mondo, e si prendono cura dei vigneti di molte delle aziende più celebri del pianeta, come, tra le altre, Château d’Yquem, Château Latour, Château Angelus, Domaines Leroy, Château Haut Bailly, Château Lynch Bages, Château Batailley, Château Pichon Longueville Comtesse de Lalande, Domaine Leflaive, Domaine de la Romanée-Conti, Hennessy e Louis Roederer in Francia, Biondi-Santi, Ferrari, Alois Lageder, Bellavista, Sella & Mosca, Allegrini, Feudi di San Gregorio, Ruggeri e Nino Franco in Italia, Pago de Carraovejas, Marques de Riscal e Muga in Spagna, Ramos Pinto, Cortes de Cima e Prats & Symington, Niepoort Wines e Domínio do Açor in Portogallo, e poi, oltre a cantine in Sudafrica e Australia, in Usa, con Quintessa, Flowers, Cathy Corison, Shafer Vineyards, Spottswoode, e, ancora, Ponzi ed Abbot Claim in Oregon. Ed ora anche Opus One, il nome più iconico del vino di California e della Napa Valley, nato da una joint venture tra due nomi antologici del vino come Baron Philippe De Rothschild e Robert Mondavi, con cui Simonit & Sirch sta mettendo in piedi un nuovo progetto basato proprio sul concetto dell’“architettura dinamica della vite”, come spiega, a WineNews, lo stesso Marco Simonit, a pochi giorni dalla masterclass proprio sui vini di Opus One ospitata in una delle “Academy” di Simonit & Sirch a Capriva del Friuli, con i vertici della cantina californiana (e con la cucina dello chef siciliano Pino Cuttaia, due stelle Michelin con La Madia di Licata, ndr).
“Opus One è una realtà meravigliosa, che ha investito tantissimo in competenze e risorse umane, in qualità del lavoro e della vita dei lavoratori, e in formazione, in questi anni, sotto la guida di Michael Silacci, e con la quale stiamo curando un nuovo progetto ad Atlas Peak, una delle zone più belle della Napa Valley, dove si può trovare spazio per nuovi vigneti senza sconvolgere il paesaggio, per il ritorno ad una “viticoltura di luogo”, con un’architettura della vite che stiamo disegnando ad hoc. Tutto - spiega Simonit - oggi è pensato per proteggere le uve dal sole e dal caldo, con una struttura particolare, dinamica, appunto, capace di evolversi ed adattarsi al clima, all’età, alla forma della chioma, ma anche al tipo di vino che si vuole fare, che magari oggi è pensato con determinate caratteristiche, ma domani potrebbe averne altre. Lo abbiamo fatto per la prima volta in Italia, da Biondi-Santi, a Montalcino (“culla” del Brunello inventato a fine Ottocento da Ferruccio Biondi Santi, e oggi del Gruppo Epi della famiglia Descours, ndr), con una gestione della parete fogliare dinamica che si può adattare a seconda dell’andamento climatico e dei diversi momenti dell’anno. Ed ora, tra gli altri, con Opus One stiamo portando ancora più avanti questo nostro approccio”, prosegue Simonit. “Siamo partiti dal concetto che la spalliera, che va per la maggiore, forse, è troppo “rigida”: serve qualcosa di “adattivo”, che nasca da una visione che contempera breve, medio e lungo termine. Che vuol dire anche maggiore efficienza di un investimento strutturale ed importante per le aziende”, sottolinea Simonit. “È un approccio molto legato al concetto di “epigenetica”, cioè a come il cambiamento del Dna, in questo caso della vite, può essere influenzato da fattori ambientali. Perché tutto cambia, e allora anche la vigna non può essere vista come qualcosa di immutabile, o che per cambiare deve essere espiantata e ripiantata da zero. Ed è un approccio che va anche molto oltre il biologico e il biodinamico, e che guarda ad una sempre maggiore interazione tra la parte agronomica e quella enologica, che lavorano in sinergia per fare emergere il più possibile le caratteristiche che si vogliono per quel vino, rispettando il senso del luogo. Che fa la differenza”.
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