Guardare negli occhi un vino. Non con la luce che accende le tinte nel bicchiere e neanche leggendo l’etichetta, ma sfiorandone con la memoria la storia più intensa. Ezio Rivella, tre quarti di secolo da pochi giorni (è nato il 3 marzo del 1933), lo ha fatto con il suo libro “Io e Brunello” (Baldini Castoldi Dalai, 2008), in quasi 400 pagine da leggere con la stessa intensità con cui si degusta un Biondi Santi, un Casanova di Neri, un Poggio al Vento o - per restare a casa dell’enologo dalle radici piemontesi ma dal cuore toscano - un Castello Banfi. Rivella, il generale tra i filari sempre a bordo di quella jeep stile marine, non le ha mai mandate a dire. E anche in questo volume che celebra la sua vita mano nella mano con il rosso italiano più seducente, non si risparmia. Pagina dopo pagina si fa un viaggio nella vita di un uomo-chiave dell’Italia del vino, si conoscono retroscena degli anni più difficili e si arriva a parlare dell’oggi edel futuro. E Rivella, dall’alto di una vita di successi, non risparmia i dubbi sull’enosistema, puntando il dito sulle eccedenze produttive e sull’equilibrio tra denominazioni e prezzi. In un mondo dove troppi produttori e molti commerciali parlano di trionfo Italia, lui ha il coraggio di dire che “non si può ancora giudicare soddisfacente l’export di bottiglie doc o igt, e che la posizione dei vini italiani di prestigio sui mercati internazionali è ancora molto debole”. Parole meditate e coraggiose, scritte da chi ha ancora voglia di fare tanto. “Ho in mente così tanti progetti che Dio solo sa se avrò a disposizione abbastanza tempo per concluderli”, dice Rivella dopo aver criticato, in modo costruttivo, il sistema vino italiano. Ma il lettore non tema di annoiarsi. Io e Brunello non è un saggio ma un romanzo. Il racconto di una vita cominciata il 3 marzo 1933 a Castagnole Lanze, nell’Astigiano, a un tiro di schioppo dalle altre colline del vino italiano: le Langhe. Un’esistenza passata attraverso il primo incarico, a Ciampino (Castelli Romani), e legata indissolubilmente a Castello Banfi. Rivella ci è arrivato nel 1977, a 44 anni, e dall’incontro con il suo amico Brunello - in un’azienda che è il cuore pulsante di quel territorio - è ricominciata la storia del principe dei vini toscani. Biondi Santi su una sponda, Rivella su un’altra, hanno messo i gradini di una scalinata gloriosa che ha portato il territorio all’ombra del Monte Amiata ad avere oggi oltre 200 aziende vitivinicole. Ma il cavalier Rivella (un riconoscimento a cui tiene così tanto da celebrarlo con una festa che a Montalcino ancora ricordano) non si è fermato lì: per dodici anni è stato presidente dell’Associazione mondiale enologi, del Comitato Doc e vice dell’Office Internationale de la vigne et du vin. Nel libro c’è molto di tutto questo ma c’è soprattutto sudore, fatica e amore per la terra di Montalcino. Sono pagine per capire un fenomeno, conoscerne i segreti, comprenderne le scelte. Perché l’incontro tra Rivella e Castello Banfi, tra l’uomo di Castagnole Lanze e il suo amico Brunello, ha probabilmente cambiato la storia del vino italiano, almeno sul fronte dell’export verso gli Usa, almeno sul fronte della consapevolezza e del coraggio. Nel libro, Rivella non non ha la presunzione di dirlo, ma lo fa capire sul filo dell’emozione, con il lavoro e ricordando - da piemontese - che l’“Italia avrebbe bisogno di tante Montalcino”. Non solo sul fronte enologico.
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