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La Stampa

Barolo-Pinot, la grande sfida ... Arrivano i “cru” per i vini di Langa, come per i grandi di Borgogna... Langa e Borgogna, luoghi mitici di Enolandia, con precise affinità e nette divergenze. Di questo si è parlato ieri ad Alba e La Morra, con un dibattito organizzato da ArteVino. Quaranta produttori, equamente divisi tra italiani e francesi, chiamati a confrontarsi sulle rispettive realtà. I trecento fortunati che hanno prenotato i biglietti per la degustazione di oggi (65 euro), presso la Sala Polifunzionale de La Morra, potranno raccontare di avere assaggiato Grand Cru di Vosne Romanèe e Barolo vecchi di dieci anni: fortune non da tutti. L’aggancio della manifestazione è stato l’approvazione della modifica ai Disciplinari di Barolo e Barbaresco, che ha introdotto anche giuridicamente il concetto di “cru”. In Francia ci sono arrivati due secoli fa, l’Italia pure qua ha avuto i suoi tempi dilatati. “Cru” è parola intraducibile, come “climat” e “terroir”: semplificando sta per territorio, vigneto. La si usa per indicare l’unicità di un appezzamento, capace di caratterizzare decisamente il prodotto finale.

I maestri francesi. La Borgogna ne è da sempre maestra. Come ha riassunto il vigneron Philippe Senard, “A Bordeaux si privilegiano le società fondiarie, nello Champagne il blasone del marchio e della maison, in Alsazia il vitigno: in Borgogna il terroir”. Questa sembra ora anche la volontà di Barolo e Barbaresco. Prima si chiamavano “sottozone”, ora “menzioni geografiche aggiuntive”, perifrasi di squisita bruttezza farraginosa che se non altro ha il pregio di dare certezza giuridica alle molteplici zolle magiche di Langa: Cannubi, Vigna Rionda, Ravera. Luoghi così saturi di particolarità da divenire la spina dorsale di un vino. O almeno così dovrebbe essere. La variazione al disciplinare, in apparenza voluta da tutti, di fatto sembra per non avere accontentato pienamente nessuno. Secondo Camillo Favaro, autore di Vini e percorsi di Borgogna, “È un buon punto di partenza, ma è stato dato troppo campo libero ai comuni. Alcune realtà, come Castiglione Falletto, sono state divise bene: altre, come Monforte, paiono un disastro. Dalla Borgogna dobbiamo imparare molto, anche il rispetto della terra. Loro, sopra i Grand Cru, hanno le foreste e il terreno drena. Da noi basta una pioggia e La Morra si sbriciola in tante frane”. Sul banco degli imputati c’è anche la spartizione “orizzontale” dei cru. A differenza della Francia, dove esiste una gerarchia che sancisce il diverso tenore qualitativo delle varie zone (Grand Gru, Premier Gru), le “menzioni geografiche” langarole sono tutte uguali. “E questa è un’ipocrisia”, ha tuonato Franco Ziliani, temuto blogger di Vino al Vino. “È una decisione troppo democratica. Per il disciplinare, un Cannubi vale un Valentino, solo che quest’ultimo è un cru fantasma di Castiglione Falletto: nessuno fa un vino con quel nome. Ci vorrebbe il coraggio di ammettere che un cru Badarina non avrà mai la qualità di un cru Vigna Rionda”.

La sfida alla cieca. Il parere più controcorrente l’ha espresso Nicola Agramente, responsabile della Strada Vini. “Di cru ci occupiamo da tempo. A fine Novanta li abbiamo studiati scientificamente. Allestimmo un panel di esperti, li addestrammo ad essere oggettivi come macchine: ebbene, in quelle degustazioni alla cieca nessuno riconosceva questo o quel cru. Spesso venivano maggiormente apprezzati i vigneti meno noti. Da quella esperienza emerse che, a diversificare un vino, non era il terreno ma l’annata e la mano del viticoltore. Anche per questo non avrebbe senso una classificazione gerarchica”.

I vignaioli. Parole (forti) rilanciate da Giovanni Minetti di Fontanafredda. “Quella ricerca la seguii in prima persona. Abbattemmo le varianti, vinificavamo le uve alla stessa maniera. Stessi lieviti, stessa cantina, stessa macerazione, stessa permanenza nel legno. A quel punto, il cru non lo sentivi più. Ai critici non farà piacere, ma la migliore qualità di un dato vigneto dipende soprattutto dai metodi di vinificazione. Dalla bravura di chi fa quel vino. Non dall’aspetto geografico”. Un’analisi brutale, che arriva quasi a negare l’importanza del terroir. È anche su questo aspetto che, da sempre, si dividono modernisti e tradizionalisti. Da una parte, chi sostiene l’uomo possa manipolare a piacimento il vino; dall’altra, chi si sforza di credere (o sperare) che quel nettare sia anzitutto figlio della terra. Divergenze incolmabili. Le stesse di chi preferisce il fascino nebbioso di un Barolo o l’eleganza insondabile di un Pinot Noir: così uguali, così diversi.

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