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Panorama / Economy

L’eccesso di difesa che non aiuta l’italian food ... Abbiamo il record mondiale dei marchi di garanzia. E troppo consorzi. Che non impediscono la proliferazione, non solo all’estero, di prodotti che poco hanno a che fare con la filiera produttiva nazionale... Se fosse vero quel che scriveva il filosofo” (l’uomo è ciò che mangia), il mondo dovrebbe essere pieno di italiani per generazione enogastronomica. Ma non è così, non solo perché i filosofi spesso sbagliano, ma perché molti prodotti alimentari venduti come italiani, e non solo all’estero, di italiano molto spesso hanno soltanto il nome. Gli ultimi dati sulle esportazioni confermano che l’italian food piace e vende bene. E proprio per questa ragione è inevitabilmente e costantemente nel mirino delle multinazionali, che ne hanno già mangiato pezzi importanti, e degli imitatori seriali, che producono senza ritegno multipli più o meno truffaldini. Le difese apparentemente non mancano. Anzi, abbondano. L’inchiesta della nostra storia di copertina rivela che l’Italia ha il record mondiale dei marchi di garanzia, circa 700. Per non parlare dei consorzi e degli enti di tutela, che sono 1.450 contro i 2 (sì, proprio due) dei francesi. E non siamo fermi: abbiamo 150 prodotti in attesa di riconoscimento, contro i 30 oltralpe. L’eccesso di difesa, comunque, non è redditizio. I 700 prodotti protetti rappresentano solo il 16% del Pil alimentare italiano mentre i 350 francesi il 40%. Questo dato ci ricorda che a fare il mercato è la produzione generica, con materie prime non necessariamente di provenienza nazionale, spesso trainata e avvantaggiata dai più deboli prodotti a denominazione di origine controllata. Alla vigilia di due importanti appuntamenti come il Vinitaly a Verona e Cibus a Parma, c’è quindi da chiedersi perché i francesi hanno un team di legali al servizio del prodotto nazionale e noi lasciamo soli i nostri produttori più scrupolosi contro i furbetti dell’etichetta. E come mai i cinesi sono riusciti a ottenere dall’Unione europea il riconoscimento dei loro spaghetti di soia. E invece noi dobbiamo competere con chi produce ovunque spaghetti, magari di grano tenero. Non c’è soltanto il caso Parmalat.

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