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“Wine2wine” - Il mercato americano non è un mercato maturo senza espansione: tra East Coast e West Coast, ci sono un continente e milioni di clienti da scoprire. Ecco l’invito che arriva ai produttori del Bel Paese dal workshop “Export: Focus Usa”

Italia
Il mercato americano non è un mercato maturo senza espansione

Il mercato americano non è un mercato maturo senza espansione: tra East Coast e West Coast, che concentrano quasi il 50% del vino italiano esportato in Usa, ci sono un continente e milioni di clienti tutti da scoprire. Ecco l’invito che arriva ai produttori, grandi e piccoli, del Bel Paese dal workshop “Export: Focus Usa” a “Wine2wine”, il forum di Vinitaly, in collaborazione con Federvini ed Unione Italiana Vini, di scena il 3-4 dicembre a Verona (www.wine2wine.net).
Il mercato a stelle e strisce ha le qualità di un mercato maturo e la forza di una tendenza alla crescita stimabile almeno in un +4% per i prossimi cinque anni. Fondamentale esserci sia per le aziende più grandi e strutturate che per quelle più piccole e magari di nicchia. E proprio la voce di chi importa storicamente questo tipo di vini negli Stati Uniti indica anche come la crisi economica, che ha colpito gli Usa nel biennio 2008-2010, ha aperto delle nuove opportunità. “La crisi ha portato il mercato a stelle e strisce a cercare vini dal rapporto qualità/prezzo più vantaggioso anche tra le etichette tricolore - spiega Antonio Ciccarelli, da 14 anni export manager per gli Usa di Marc de Grazia Selection - e così è partita la corsa alla scoperta di piccole denominazioni di zone di produzione meno conosciute dello Stivale. In più, il cambio generazionale dei sommelier americani ha rotto qualche vecchio cliché che imponeva per le carte dei vini dei ristoranti a stelle e strisce, scelte legate quasi esclusivamente a Toscana e Piemonte. Le vendite sono in crescita anche in molti stati che non facevano parte delle mete classiche dei vini italiani, per esempio il Texas. E questo non è altro - conclude Ciccarelli - il segnale che, negli Usa, i margini di crescita sono ancora molto ampi. Ma gli italiani continuano a comunicare male e poco con gli Usa, magari guardando ad altri sbocchi commerciali meno promettenti”.
Nello Stato di Seattle, che concentra nella costa NewYork e Los Angeles quasi il 50% del vino esportato in Usa, la Francia continua, se pur con qualche cenno di discontinuità, a detenere il primato del prezzo medio del suo vino all’estero, mentre l’Italia, con eccezioni importanti come Usa e Germania, non riesce però ad esprimere un prezzo altrettanto alto (siamo ancora alla metà del prezzo medio francese che sfiora i 6 euro, mentre noi siamo appena sopra ai 3 euro al litro). Certo, il mercato Usa è il massimo della competizione, pone difficoltà di ordine logistico evidenti e barriere d’ingresso molto dure. Ma, solo per fare un esempio, lo Stato di New York compra più vino italiano in un anno che la stessa Italia. D’altro canto, i distributori di vino a stelle e strisce sono passati in 10 anni da 7.000 a 700 ed i 5 più grandi rappresentano il 50% di tutto il vino che entra negli Stati Uniti.
“Abbiamo cominciato a costruire la nostra rete commerciale negli Stati Uniti nel 2004 - afferma Alberto Lusini, export director di Mezzacorona - partendo da piccoli distributori statali per arrivare alla distribuzione nazionale. Essere rilevante per il proprio distributore non è, però, sufficiente. Gallo, per esempio, controlla il 30% delle etichette allo scaffale in Usa. Molto importante - continua Lusini - è una buona gestione dei social media che in America sono un veicolo fondamentale per la crescita del proprio brand ed in più sono il canale privilegiato con cui rapportarsi ai consumatori di vino. Di quest’ultimi, il 30% consuma l’80% del vino che arriva in Usa, e bisogna - chiude il manager di Mezzacorona - sapere con chi parlare”.
Chianti, Valpolicella, Amarone, sono stati i primi vini a denominazione che hanno varcato l’Oceano nel dopoguerra. E se per il vino toscano le difficoltà sono state minori, lo stesso non è possibile dirlo per i due vini provenienti dal Veneto. “Nel 1983, la prima volta che sono andata negli Stati Uniti - racconta Marilisa Allegrini, alla guida della griffe veneta - ho da subito compreso l’importanza della comunicazione a partire da quella fondamentale fra produttore e buyer. Bisogna suscitare interesse immediato perché siamo in un mercato molto competitivo e non c’è che l’imbarazzo della scelta. Questa è la sua più grande criticità”.
“Per noi la scelta fondamentale è stata quella - spiega Massimo Tuzzi, direttore generale della Casa Vinicola Zonin - di creare una società controllata negli Usa: saltare almeno lo scalino dell’importatore è stato per noi una mossa decisiva, anche in un mondo come quello a stelle e strisce dove il “passa parola” resta ancora un metodo valido per farsi conoscere”.

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