Poco più di 5 anni fa, nel 2014, i vigneti rivendicati a Barbera d’Asti erano poco più di 3.900, il minimo storico, almeno dal 2000 in avanti. Si era a metà, o poco più, dei primi 10 anni del riconoscimento dalla Docg del vino quotidiano e “pop” per antonomasia dell’astigiano e del Piemonte. Da allora, però, grazie al più convinto e sinergico lavoro di produttori, Consorzio della Barbera d’Asti ed istituzioni, è arrivata la riscossa: gli ettari sono tornati a crescere (oggi siamo oltre il 4.129), i volumi di produzione sono tornati ad aumentare (nel 2017 21,1 milioni di bottiglie), e il mercato ha ripreso a marciare, non solo in quantità (con il 51% dei volumi esportati) ma anche in qualità, con un progressivo spostamento dal canale della gdo a quello ben più remunerativo dell’horeca. E sono cresciuti i valori fondiari, praticamente raddoppiati in 4-5 anni, arrivando a 100-120.000 euro ad ettaro di oggi.
“Un percorso che inizialmente ha richiesto coraggio, come ora lo richiede andare avanti, lavorando soprattutto sulla comunicazione, sul posizionamento del marchio e del prezzo, e, ovviamente, sulla qualità”. Parole, a WineNews, di Filippo Mobrici, nella festa-riflessione sui primi 10 anni da Docg della Barbera d’Asti, “la mamma di altre realtà come il Nizza, oggi vertice qualitativo del territorio, e ufficialmente Docg autonoma da poche settimane, che ha contribuito in maniera importante al rilancio di questo vino e di questo territorio”, ha detto Mobrici, in apertura di un convegno dove si è riflettutto sul territorio, ma anche su temi di portata più ampia, come il futuro della viticoltura stessa, e del sistema delle denominazioni.
“Oggi possiamo dire che la Barbera è in salute rispetto al passato - ha aggiunto Mobrici - ma dobbiamo stare attenti, gestire i volumi di produzione, utilizzando al meglio tutta la piramide delle denominazioni che abbiamo nel territorio, dal Nizza alla Barbera d’Asti Superiore, dalla Barbera d’Asti al Piemonte Barbera, grande bacino sul quale lavorare, che ci consente di avere il “vino di tutti i giorni”, che è un punto di forza, e così via. Con un obiettivo chiaro: mantenere prima di tutto la sostenibilità economica dei vigneti, e la dignità del lavoro dei viticoltori, altrimenti non si mantiene il territorio, e questa è la sfida per il futuro”.
Un futuro costruito grazie a chi da sempre ha creduto nelle potenzialità della Barbera, come la cantina Michele Chiarlo, che ha portato il Nizza in testa al mondo, con il n. 1 della Top 100 della rivista americana Wine Enthusiast per il Nizza Cipressi 2015.
“Quello che è cambiato, per la Barbera - spiega Stefano Chiarlo - è la percezione della Barbera d’Asti. Sono aumentati i piccoli e medi produttori che hanno investito in qualità. E la qualità richiede anni di investimento, e serve, perchè i mercati più evoluti non si accontentano più di vini buoni, ma vogliono anche vini autentici, e la Barbera lo è. Ed è un vino moderno, “food frendly”, con grande frutto ma anche acidità, ed è diventato un vino moderno, attrattivo e vincente sul mercato mondiale. Nei confronti del vino e del territorio è cresciuta la considerazione della critica italiana ed internazionale, ma ha contribuito molto anche il fenomeno dell’enoturismo, anche grazie alla visibilità arrivata dal riconoscimento Unesco per Langhe, Roero e Monferrato”.
Insomma, bilancio di un rilancio di successo, quello della Barbera, “possibile anche perchè ci sono state politiche attente di territori e persone ed imprese capaci di valorizzarle, e non era scontato”, ha sottolineato l’Assessore all’Agricoltura del Piemonte, Giorgio Ferrero.
Eppure, il territorio non può fermarsi, come non può fermarsi la riflessione sulla viticoltura e sul ruolo delle denominazioni. “Che sono uno strumento importante, ma impongono scelte diverse nei diversi territori, perchè le strategie di una denominazione come Prosecco non possono essere le stesse del Brunello di Montalcino, per citare due casi diversi, ma entrambi di successo”, ha detto Nicola Lucifero, docente di Diritto Agrario e Agroalimentare all’Università di Firenze.
“Creare una Docg - ha ricordato Lucifero - vuol dire legare il prodotto al territorio, valorizzare l’identità del vitigno e quella dei luoghi in cui si produce. Ma nel mondo, la denominazione deve essere difesa sul mercato, dove c’è una concorrenza spietata, e si deve pensare che in molti mercati il sistema delle denominazioni non è ricosciuto e che si lavora sui marchi, che sono un altro strumento”. Un contesto complesso, che impone scelte delicate e influenzate anche da livelli normativi superiori, come l’Unione Europea. Ma sulle denominazioni in quanto tali, si impone anche un’altra riflessione.
“Oggi i disciplinari delle denominazioni italiane sono ancora basati, agronomicamente, sui modelli di prima del “climate change”, ci sono parole indefinibili come “tipico”, magari ancorate a quello che lo era negli anni 70, oppure è prevista l’“irrigazione di soccorso”, ma non è definita giuridicamente in maniera chiara. Forse dobbiamo ripensarli, e pensare a disciplinari che, nel rispetto del lagame con il territorio, diano la possibilità di espressioni diverse, anche perchè sul mercato è la moltiplicazione dell’offera la cosa che funziona”, ha sottolineato Michele Antonio Fino, professore di Fondamenti del diritto europeo e direttore del Master in Wine Culture Communication and Management dell’Università di Pollenzo.
Ma c’è anche un altro aspetto da considerate, tirato in ballo da un decano della ricerca e della cultura del vino mondiale, Mario Fregoni, presidente onorario dell’Oiv: “oggi le varietà più coltivate come Merlot e Cabernet, per dirne alcune, stanno crescendo sempre di più, non solo nel mondo, ma anche in Italia. E mentre al viticoltura si espande sempre di più anche in territori freddi, si fanno largo le varietà ibride. Dobbiamo pensare, quindi, che per mantenere presenti e competitive le nostre varietà autoctone e quel mix che compone la diversa base della piattaforma ampelografica di ogni Regione d’Italia, c’è tanto lavoro da fare. Al punto che presto si parlerà di candidare la Vitis Vinifera a patrimonio Unesco”.
Ma, più in generale, serve uno sguardao aperto sul futuro, guidato dalla consapevolezza di quello che è stato il passato, come ha spiegato Vincenzo Gerbi, docente di Enologia all’Università di Torino: “è vero che in passato, se si pensa alla Barbera in Piemonte, ce ne era molta di più. Ma parte di quello che abbiamo perso di certo non va rimpianto: nel lontano passato, dalle ricerche è emerso che appena il 30% della Barbera che veniva immessa sul mercato aveva completato correttamente la fermentazione malolattica, per fare un esempio. Oggi dobbiamo pensare al futuro, valutando tutti gli strumenti possibili, senza dire no a tutto a prescindere. Ma serve la ricerca, e per farla non bastano più gli investimenti pubblici, che sono sempre di meno, ma devono impegnarsi anche i produttori”.
Altro aspetto che coinvolgerà sempre di più anche il vino, è la crescente attenzione per tutto quello che riguarda la salute, anche in tavola. B>“E su questo dobbiamo considerare che non siamo ancora riusciti a fare un salto di pensiero, e a considerare il vino non come una bevanda, ma come un alimento liquido, quale è”, ha detto Giorgio Calabrese, presidente del Comitato Nazionale Sicurezza Alimentare del Ministero della Salute, che ha aggiunto: “tutto si sintetizza in questo slogan, ovvero, beviamo l’acqua, gustiamo il vino”.
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