“Dis-moi ce que tu manges, je te dirai qui tu es”: è la sintesi perfetta di Jean Anthelme Brillat-Savarin, il padre della moderna gastronomia e gastrosofia, che, nel suo celebre divertissement “Fisiologia del gusto”, definiva nel 1825 l’etica del cibo, una questione complicatissima e al giorno d’oggi sempre più complessa, che un professore di filosofia, tra i più autorevoli e famosi in Italia, cerca di analizzare, ribaltandone la frase e la stessa questione. “Anche se mangiamo per essere, possiamo non essere ciò che mangiamo”, scrive Adriano Fabris, professore di filosofia morale ed etica della comunicazione all’Università di Pisa, invitando tutti a farlo nel suo pamphlet “Etica del mangiare. Cibo e relazione”, perché, per scegliere bene, diventa importante sapere, anche riguardo al cibo, che cosa significa “bene” oppure “male”, e motivando ad agire bene anche e proprio quando mangiamo.
L’idea da cui parte è che l’atto del mangiare è un modo problematico (e anche distruttivo e violento) di relazionarci con gli altri esseri umani e con il mondo in generale, e spesso non lo sappiamo o lo dimentichiamo, come dimostrano i comportamenti che assumiamo nei confronti del cibo dovuti ad un modo sbagliato d’intendere, appunto, l’atto del mangiare.
“Mangiamo male - sostiene Fabris nel volume (Edizioni Ets, pp. 108, prezzo di copertina 10 euro) - perché non sappiamo che cosa vuol dire bene e male nella nostra relazione con il cibo. In questo periodo di cenoni e di celebrazioni gastronomiche varie, in cui finiamo per mangiare anche solo per ottemperare ad una tradizione, l’esigenza di mangiare in maniera etica si ripropone con ancora più urgenza. Mangiare eticamente significa mangiare in maniera equilibrata, rispettosa degli altri (di coloro che magari non possono permettersi cenoni), di sé (del proprio benessere e della propria salute), di tutto l’ambiente”.
Nella prima parte del pamphlet, più esplicitamente polemica, l’autore mostra che le questioni relative al mangiare oggi sono spesso mal impostate, in quanto la relazione alimentare è appiattita su uno e uno soltanto dei termini di essa, su chi mangia o su chi/cosa è mangiato. Da un lato emergono così fenomeni di narcisismo gastronomico e specifiche patologie che a tale approccio al cibo purtroppo si ricollegano, dall’altro, si determinano esempi di feticismo o di fondamentalismo nei confronti di altri esseri viventi. La seconda parte approfondisce gli aspetti di sacralità legati al cibo, a partire dalle religioni che hanno regolamentato come e cosa mangiare, anche allo scopo di mediare tra la necessità di uccidere per nutrirsi e il problema di limitare l’impatto di queste uccisioni. Il terzo capitolo, infine, sviluppa una vera e propria etica del mangiare, a partire dall’idea che nutrirsi è un atto di relazione, individuando un punto di equilibrio tra le posizioni estreme criticate nella prima parte e l’inevitabile necessità di esercitare violenza su altri organismi, per assumere l’idea che mangiare è trasformare sia gli altri che sé stessi e rilanciare la possibilità di una relazione buona con gli esseri viventi a partire da una convivialità che coinvolge non solo noi umani, ma l’intero ecosistema.
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