Una cultura sottomessa alle sue origini e circoscritta ad un determinato territorio, può promuovere l’idea che cibo e cultura possano essere un fattore di integrazione? Il cibo ha un ruolo fondamentale e insostituibile, tanto come aggregatore sociale quanto come marcatore della diversità, e quindi cosa significa “Gastronazionalismo”? Queste e tante altre le tematiche affrontate da Michele Antonio Fino e Anna Claudia Cecconi, con un contributo di Andrea Bezzecchi, nel volume “Gastronazionalismo”, ovvero l’atteggiamento di chi, basandosi sulla propria identità culinaria nazionale, la reputa superiore a quella di altri popoli, e che, inevitabilmente, è connesso alla concezione della propria cultura come superiore alle altre. Il cibo, solitamente reputato un mezzo di convivialità, può diventare quindi strumento di esclusione nei confronti degli altri e di espressione di correnti ultranazionaliste.
Nei primi capitoli del volume (People edizioni, 2021, pp. 256, prezzo di copertina 18 euro), Michele Antonio Fino, professore di Diritto romano e Diritti dell’antichità all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, spiega con solide basi giuridiche, perché almeno nel nostro Paese sia stato frainteso il senso del Regolamento europeo 2081 del 1992, quello che ha istituito le categorie giuridiche della Denominazione di origine protetta (Dop) e dell’Indicazione geografica protetta (Igp). “La mia tesi - racconta Fino - è che ci sia in Italia un genius loci appassionato di medaglie di latta, perché il meccanismo europeo di Dop e Igp si è inserito in una dinamica nazionale che già ragionava in termini di specialità locali da tutelare e di identità da salvaguardare, dimenticando che l’Unione Europea era ed è soprattutto un mercato e che quella misura nasce per proteggere dalle imitazioni quei prodotti che, grazie all’export, avrebbero avuto accesso ad altri mercati nazionali nei Paesi dell’Ue”. Nel libro, il professor Fino e Anna Claudia Cecconi, business developer di Too good to go, l’app n. 1 al mondo per combattere gli sprechi di cibo, argomentano perché anche iniziative che hanno origine da idee meritevoli - ad esempio le Denominazioni Comunali promosse da Luigi Veronelli o il progetto dei Presìdi promosso da Slow Food - hanno finito con innescare una voglia di campanilismo gastronomico offrendo nuove occasioni di mettersi medagliette. “Hanno ben da fare i promotori per far sì che questi riconoscimenti vengano interpretati correttamente, perché alla prova dei fatti si traducono in una corsa ad avere sempre più nostre specialità, perché gli italiani vivono evidentemente con questo bisogno di essere riconosciuti - spiega Fino - è saltato il meccanismo alla base delle Indicazioni e delle Denominazioni: è prioritario riconoscere, non avere una specialità che funzioni, che sia diffusa, che abbia un mercato all’altezza, così da verificare l’esigenza di un meccanismo che tuteli i produttori dalle imitazioni”.
Attraverso alcuni esempi i due autori esemplificano in modo chiaro quello che sta accadendo nel nostro Paese. Come nel caso dei produttori di Bitto Dop (d’alpeggio) che sono usciti dal Consorzio il cui disciplinare non fa grande differenza tra il loro formaggio artigiano e il Bitto di pianura, un esempio tra tanti di come “il grande, o il più semplice da produrre, si mangia il piccolo - sottolinea Fino - e quindi per quel prodotto di nicchia forse non aveva nemmeno senso riconoscere una Denominazione”. Nel libro è dedicato un intero capitolo alla Piadina romagnola. Spiega il professor Fino: “per il riconoscimento di ogni Dop, l’Ue chiede di caratterizzare un legame storico e geografico con un territorio di riferimento, ma per quanto riguarda la piadina ci troviamo di fronte ad un disciplinare di produzione fatto su misura per un prodotto che solo incidentalmente può essere artigianale”. La grande reputazione legata alla Piadina romagnola - continua Fino - però, non abbraccia un prodotto realizzato su larga scala, ma un prodotto casalingo, fatto fresco nei chioschi delle Province di Forlì-Cesena, Rimini e Ravenna. Questo disciplinare, a nostro avviso, costituisce un vantaggio competitivo che è costruito artificiosamente, dato che il prodotto descritto non è quello tradizionale. Di fronte ad una situazione del genere, perché un’industria che ha stabilimenti in Provincia di Modena non dovrebbe avere il diritto di produrre piadine e chiamarle col loro nome?”.
Ma il “Gastronazionalismo” può anche promuovere idee false e poco veritiere sull’origine italiana di alcuni prodotti. In realtà nel nostro Paese molti cibi che definiamo tipicamente italiani, provengono da altri luoghi; ne è esempio indiscusso la “pasta al pomodoro”: gli spaghetti affondano probabilmente le loro origini nei viaggi di Marco Polo in Oriente, da dove egli avrebbe importato i noodles, poi trasformati negli attuali spaghetti, mentre il pomodoro è stato introdotto in Europa in seguito alla scoperta delle Americhe.
Il risultato è un volume che propone una rilettura critica dell’Europa contemporanea alla luce delle problematiche legate all’integrazione e al dilagare di fenomeni populisti e nazionalisti. Gli autori evidenziano i limiti che ostacolano la costruzione di un’identità europea comune, suggerendo un approccio differente al concetto di origine dei prodotti per un decisivo cambio di paradigma. Perché, quando parliamo del nostro cibo, dovremmo sempre ricordare che l’aggettivo non è possessivo.
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