Un record storico dell’export agroalimentare ormai assodato, ad oltre 52 miliardi di euro, nel 2021, trainato dal vino, che, con oltre 7 miliardi, vale il 14% del totale. Ma, in buona parte sul 2020, ma soprattutto sul 2019, crescono a doppia cifra anche la carne ed i derivati, il caffè, la cioccolata ed i formaggi, l’ortofrutta fresca, l’olio Evo, i derivati del pomodoro e la pasta. Ma, al di là del dato economico, fondamentale, l’anno appena chiuso restituisce l’immagine di un made in Italy che, pur tra le mille difficoltà dei nostri tempi, e degli ultimi due anni di pandemia, esce addirittura rafforzato nel posizionamento, nell’immagine e nell’apprezzamento da parte di consumatori di tutto il mondo. Un elemento che è da stimolo per affrontare fattori che vanno dalle tensioni geopolitiche ai costi energetici, dei trasporti e delle commodity che continuano a rimanere alti. Emerge dal Forum Agrifood Monitor n. 6, realizzato da Nomisma, in collaborazione con Crif, oggi a Bologna, con, tra gli altri, Paolo De Castro, europarlamentare, Alessandro Guerini, export director del Gruppo Vinicolo Santa Margherita, Fabio Maccari, ad Gruppo Salov, e Silvia Mandara, vice presidente del Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana Dop.
I numeri delle esportazioni agroalimentari italiane, parlano di un +11% nel 2021 sul 2020, e di un +15% sul 2019, ultimo anno pre-Covid, con performance superiori a quelle dei diretti competitor come Francia e Germania che sono rimaste sotto il 10% (rispettivamente +8% e +5%). “Il 2021 sarà ricordato come un anno straordinario per l’export agroalimentare italiano, grazie ad una crescita che ha coinvolto tutti i prodotti, portando così ad incrementi nella quota di mercato dell’Italia in molti mercati mondiali alla luce di performance superiori a quelle dei nostri diretti competitor” ha dichiarato Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare Nomisma. Tra i principali mercati di sbocco dell’agroalimentare italiano, Stati Uniti e Canada fanno registrare un aumento a valori del 20% rispetto alla situazione pre-pandemica (2019), in Germania il nostro export cresce del 15%, mentre le variazioni più alte si toccano in Corea del Sud (+60%) e Cina (+46%), sebbene in quest’ultimo paese la nostra quota di mercato continui a rimanere marginale (meno del 2% sul valore delle importazioni agroalimentari totali del paese asiatico).
“Anche nel Regno Unito post Brexit gli acquisti di prodotti alimentari italiani non sono diminuiti, portando ad una crescita della nostra quota di mercato che dal 5,6% è arrivata oggi al 6,3%, in un trend di riduzione delle importazioni totali di food&beverage”, conclude Pantini. E proprio il Regno Unito, assieme ad un altro mercato completamente agli antipodi come l’Australia, hanno rappresentato il focus di approfondimento del Forum: se per il Regno Unito la scelta di una disamina più dettagliata è derivata dai possibili impatti post Brexit, per l’Australia ci si è posti l’obiettivo di capire le potenzialità per i prodotti agroalimentari italiani in vista di un futuro accordo di libero scambio attualmente in fase di negoziato. Da qui la realizzazione di una doppia survey che ha coinvolto 2.000 consumatori.
Dalle indagini è emerso innanzitutto come il food & beverage italiano goda di un ottimo appeal: sia per il consumatore australiano che, soprattutto, per quello inglese, quelli italiani sono i prodotti alimentari esteri più apprezzati grazie in particolare al loro gusto e alla loro ottima qualità (lo indica il 35% in UK e il 23% in Australia). Tale percezione è da ricondurre anche alle eccellenze del nostro alimentare che vengono esportate in tali Paesi e che son ben note ai consumatori: in UK a farla da padrone in termini di notorietà è il Prosecco seguito dal Parmigiano Reggiano e dal Prosciutto di Parma. In Australia invece il primato spetta al Parmigiano Reggiano seguito a breve distanza dal Prosecco e dal Chianti. In entrambi i Paesi, l’e-commerce per il food & beverage è molto diffuso: il 34% usa spesso internet per acquistare prodotti alimentari e bevande, quota che sale al 45% tra gli inglesi. Si ricorre al web anche per acquisire informazioni sui prodotti da consumare (caratteristiche, storia del produttore, luoghi di produzione): a farlo è il 40% dei consumatori di entrambi i mercati.
Oltre che ad essere digital addicted, i consumatori di questi due importanti mercati sono particolarmente sensibili al temi legati alla sostenibilità, un fenomeno in crescita negli ultimi anni. Da quando è scoppiata la pandemia, per ben 6 consumatori 10 è diventato importante che i prodotti alimentari che si mettono nel carrello abbiano una confezione sostenibile oppure siano stati prodotti nel rispetto dell’ambiente o secondo standard etici (come una maggiore attenzione al diritto dei lavoratori). “La sostenibilità e il digital sono due leve da sfruttare per le aziende dell’alimentare italiano che vogliono esportare in Australia e UK, anche alla luce di quello che è l’identikit del consumatore di food made in Italy” spiega Emanuele Di Faustino, Senior Project Manager Nomisma. “In entrambi i mercati, gli heavy user di prodotti italiani hanno difatti un profilo ben definito: sono millennials, ben istruiti e con reddito alto, residenti nelle grandi città (Londra e Sydney) e, soprattutto, attenti alla sostenibilità e digital engaged”.
Dopo un 2021 da record, però, il difficile viene ora. Oltre alle tensioni geopolitiche in corso tra diversi paesi nel mondo, le tensioni inflattive che permangono nei costi energetici, di trasporto e delle commodity mettono a rischio il vantaggio competitivo conquistato dalle imprese alimentari italiane nell’ultimo anno. “L’export è sicuramente una opportunità. La pandemia ha accelerato alcuni processi già in corso da diversi anni”, afferma Niccolò Zuffetti, marketing manager Cribis. “Il vero tema è investire sulla preparazione e sugli strumenti giusti perché improvvisare in questo ambito può essere molto rischioso. Selezione e formazione di ruoli chiave, selezione e gestione dei corretti partner, gestione dei rischi e una buona comunicazione sono le leve vincenti”.
A portare la visione del mondo del vino, è stato Alessandro Guerini, export director del Gruppo Vinicolo Santa Margherita, una delle realtà più importanti del vino italiano, della famiglia Marzotto. “Nel 2021 abbiamo visto risultati straordinari, di questi tempi avevamo l’Europa in lockdown e misure restrittive che si sono protratte a lungo, non so quanti ci avrebbero scommesso. Al di là dell’aspetto economico è importante il segnale di fiducia dato al settore, ci siamo accorti di saper gestire anche una situazione come la pandemia, facendo crescita. È chiaro che non c’è la linearità vista fino al 2019, fine di un decennio di crescita costante. È una crescita fatta di picchi, quindi si deve imparare a pianificare in tempi più brevi. Come Santa Margherita siamo presenti in tante denominazioni importanti per il settore, dal Prosecco al Chianti Classico, dal Lugana al Pinot Grigio, e, dovunque, a gennaio 2022, c’è stata una crescita dell’imbottigliamento a doppia cifra. Questo non si traduce automaticamente in vendite, ma è un segnale tangibile di fiducia. È chiaro che ci sono tanti elementi di incertezza, dai costi dell’energia alla questione Russia e Ucraina, c’è il problema della supply chain mondiali, non si trovano le navi, e c’è un problema sulle materie prime non solo nei prezzi che crescono, ma anche nella reperibilità di vetro, alluminio e così via. Quindi una frenata ci può essere, ma credo che, alla fine il 2022, possa essere un anno positivo e di consolidamento della crescita del 2021. Anche se una grande incognita sarà vedere come i consumatori del mondo reagiranno ai rincari dei listini di tanti vini, che si stanno registrando e che si trasferiranno al consumo”.
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