I due anni di pandemia di Covid-19 hanno rivelato una inattesa capacità, da parte del mondo del vino, di superare indenne (o quasi) una crisi epocale, che ha avuto un impatto enorme, ovviamente negativo, non solo sull’economia e sui consumi globali, ma anche sulle abitudini quotidiane. Nonostante bar e ristoranti chiusi per lunghi periodi, infatti, i consumatori hanno scoperto nuove occasioni, casalinghe, in cui stappare una bottiglia di vino, a tavola e non solo, disegnando una nuova quotidianità che, alla lunga, potrebbe persino rivelare un impatto positivo sui consumi enoici globali. Finita una crisi, però, di fronte ce n’è già un’altra. Che, in realtà, è già cominciata, come raccontano i dati sui costi delle materie prime e quindi sull’inflazione, che colpisce soprattutto l’Europa, ma anche gli Stati Uniti. La guerra in Ucraina, che ormai coinvolge (per quanto indirettamente) buona parte del mondo occidentale, è destinata a rivelarsi la pietra tombale sulle stime di crescita economica, almeno nel Vecchio Continente.
Un quadro che, in soldoni, si traduce in una erosione continua della capacità di spesa delle famiglie, come rivela, ad esempio, il report “Outlook Italia - Clima di fiducia e aspettative delle famiglie italiane 2022” di Confcommercio e Censis, secondo cui il 47,6% delle famiglie italiane, soprattutto a causa dell’impennata dei prezzi dell’energia, si attende, nel corso dell’anno, una riduzione dei risparmi. E, di conseguenza, un calo dei consumi, che per il 24% degli italiani sarà necessario. Questo, come ricorda Wine Intelligence nell’analisi “How can wine brands survive the looming consumer spending crunch?”, porterà inevitabilmente ad una revisione delle spese, ed a qualche rinuncia, che rischia di coinvolgere anche il vino, fondamentale sulla tavola di un italiano o di un francese, prescindibile per una famiglia americana o cinese (come testimonia il crollo delle importazioni nel primo trimestre 2022).
Ci sono ovviamente consumi e spese non negoziabili, ossia casa, cibo e trasporti, che hanno un peso specifico diverso a seconda del Paese di provenienza e della classe sociale: nella stessa Gran Bretagna, per il 10% più povero queste spese rappresentano il 54% del totale, per il 10% più ricco il 42%. In questa differenza stanno le possibilità di spesa per tutto ciò che non è essenziale, vino compreso. Che, per superare anche questa crisi, secondo Wine Intelligence, deve fare quattro cose. La prima è un “lascito” della pandemia: in tempi difficili, le aziende devono focalizzare il proprio impegno in termini di comunicazione e marketing, sul nocciolo duro dei consumatori abituali. Sono loro, raddoppiando i consumi domestici nel periodo di lockdown, ad aver tenuto a galla le vendite, e non i consumatori abituali, che scelgono il vino giusto una volta ogni tanto all’ora dell’aperitivo. Il risultato è stato che diversi mercati in cui i volumi di vino sono stati storicamente statici o in calo, come Svezia, Regno Unito, Germania, hanno invece fermato o addirittura invertito la tendenza, registrando una crescita dei consumi di vino. Allo stesso tempo, è diminuita la popolazione dei consumatori abituali di vino in diversi mercati, con i consumatori più giovani che si sono rivelati i grandi assenti.
Il secondo aspetto riguarda invece il rapporto tra gli acquisti di vino e quelli di altri beni e servizi, e la “lezione” arriva sempre dai due anni di pandemia. Durante i quali, evidentemente, a pagare sono stati soprattutto i viaggi, tanto che in Cina, come riporta il “Bain & Co’s annual China Luxury Report”, l’impossibilità di concedersi il lusso di un viaggio ha spinto molti a concedersi altri tipi di lusso, compresa una buona bottiglia di vino. Il punto, oggi, è: se i vincoli di spesa rimuovono o limitano un tipo di attività (ad esempio una vacanza di una settimana su una spiaggia tropicale), i consumatori compenseranno con altre alternative più convenienti (come una vacanza al mare restando nel proprio Paese, consumando cibo e vino locale). C’è allora, ed ancora, da chiedersi: quanto conta il vino per il consumatore? Più o meno di un concerto, un viaggio all’estero o una bicicletta nuova? Dalla risposta, dipendono le possibilità del comparto enoico di superare indenne anche questo periodo.
Ma non basta, perché un altro punto importante riguarda la disponibilità. Di nuovo, durante la pandemia, i marchi capaci di crescere sono stati quelli che hanno mantenuto le loro posizioni in evidenza sugli scaffali, in un momento in cui le scelte di acquisto si sono inevitabilmente ristrette. E questo nonostante le possibilità offerte dagli e-commerce, sia del vino che della Gdo: in Gran Bretagna i primi 10 marchi si sono confermati sia nei piccoli store che in Gdo.
Infine, un aspetto che le aziende, soprattutto in Italia, stanno finalmente imparando a curare: la sostenibilità, o equità, che a livello globale in pochi possono realmente vantare. Anche perché, ha dei costi importanti: sviluppare un marchio equo e autentico, in un mercato delle materie prime a prezzi relativamente bassi, dominato dai supermercati, come quello del vino, non è facile. A differenza degli alcolici e della birra, raramente sono disponibili investimenti di marketing sufficienti, e troppo spesso il budget disponibile viene usato per garantire una scontistica al punto vendita tale da muovere gli stock. Eppure, quei marchi che riescono a farsi riconoscere un prezzo un po’ più alto, puntando su un prodotto realmente equo, e quindi rassicurante, familiare, piacevole da stappare, godranno nel lungo periodo di un posizionamento decisamente più alto tra i consumatori, capace di andare ben oltre il prezzo e l’etichetta.
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