Le rivoluzioni, in ogni ambito, portano sempre con sé grandi vantaggi per alcuni, e negatività per altri. Così sarebbe anche se lo “smart working”, scoperto da molti in modo massiccio nella pandemia, diventasse strutturale. “Sarebbe una vera e propria rivoluzione nel modo di vivere il lavoro e la città, che coinvolgerebbe 6,2 milioni di lavoratori e “cancellerebbe” dalle strade 4,9 milioni di passeggeri di mezzi privati o pubblici al giorno. Una rivoluzione, però, da gestire, perché avrebbe un impatto profondo ma asimmetrico sulle imprese: da un lato, porterebbe il sistema imprenditoriale a risparmiare 12,5 miliardi l’anno, e, dall’altro, farebbe perdere 25 miliardi di euro di fatturato alle attività della ristorazione, del commercio, del turismo e dei trasporti, in particolare nei capoluoghi e nei grandi centri urbani”. A dirlo il dossier Confesercenti “Cambia il lavoro, cambiano le città”, incentrato sugli effetti dello smart working su imprese, famiglie e società.
Secondo il Rapporto, prima della pandemia in Italia c’erano solo 184.000 lavoratori in smart working, o 1,3 milioni (il 5,7% del totale) includendo chi utilizzava la propria abitazione come luogo di lavoro secondario od occasionale. Ad aprile 2020, i lavoratori agili erano 9 milioni, scesi poi a 4,5 milioni al termine dell’emergenza. Confesercenti stima che un regime di smart working strutturale, con adesione su base volontaria, coinvolgerebbe 6,2 milioni di lavoratori, impiegati soprattutto nella pubblica amministrazione e nei servizi.
Ovviamente, lavorare da casa cambia abitudini di consumo e di spesa. “Chi lavora da remoto spende di più per la tecnologia per lavorare da casa; di meno per la cura della persona e per l’abbigliamento; inoltre, consuma un minor numero di pasti fuori, utilizza meno i trasporti e le attività ricettive ma allo stesso tempo aumenta la spesa per prodotti alimentari e utenze domestiche. Il bilancio tra maggiori e minori consumi, però è negativo: se diventasse strutturale, lo smart working porterebbe le famiglie a spendere -9,8 miliardi di euro l’anno rispetto ai livelli pre-pandemia”, spiega Confesercenti. Ad alcuni tipi di impresa, ovviamente, la riduzione di personale in presenza può portare un sensibile risparmio, dai costi sostenuti per l’acquisto e gli affitti dei locali a quelli del consumo di energia elettrica e gas, di trasporto e spostamento e tutto l’insieme dei costi indiretti. Un risparmio che Confesercenti stima in 12,5 miliardi all’anno. Ma nel paniere vanno messi anche in -25 miliardi di euro che fatturerebbero imprese di turismo ristorazione trasporti, e anche i 4,3 miliardi in più che finirebbero nelle casse del commercio di generi alimentari. “Nel complesso - sentenzia Confesercenti - si quantifica una perdita netta per il sistema delle imprese di -8,2 miliardi di euro di fatturato. Il quadro descritto avrà un impatto negativo, con la chiusura di quasi 21.000 attività e la perdita di oltre 93.000 occupati, in particolare nei pubblici esercizi e nella ricettività”.
Con lo smart working, sottolinea ancora il rapporto, la grande parte della riduzione di spesa si concentrerebbe nelle grandi città che hanno attività di terziario avanzato. Per questi centri si potrebbe assistere ad una ripresa del turismo vacanziero ma ad una flessione strutturale dei flussi di tipo lavorativo: sono proprio le città più densamente abitate ad avere più attività che possono essere svolte da remoto (circa il 45%), mentre nelle città minori tale percentuale si attesta intorno al 20%. Complessivamente, in un regime di smart working strutturale, mediamente, 4,9 milioni di lavoratori al giorno non si sposterebbero più da casa. Di questi 1 milione che utilizzano un mezzo di trasporto pubblico.
In ogni caso, qualche cambiamento ci sarà, come raccontano, a loro modo, i 3,4 miliardi di euro previsti da Pnrr, e già tutti “prenotati”, sottolinea Confesercenti, per i progetti di “rigenerazione urbana”. “Andrebbe aperta, però, una riflessione sul tipo di rigenerazione che si sta affermando spontaneamente e che sta provocando una redistribuzione di attività tra diverse zone della città, con effetti negativi per molte imprese. Per le imprese del commercio ed i pubblici esercizi, infatti, è un improvviso cambiamento dei vantaggi localizzativi, che si spostano a favore dei quartieri periferici e dei centri urbani di minori dimensioni, penalizzando i centri storici e le aree di precedente destinazione del pendolarismo quotidiano. Occorre riportare il bilancio in positivo - aggiunge ancora Confesercenti - sostenendo le nuove localizzazioni e la riconversione, specie degli esercizi a rischio chiusura. Gli enti locali potrebbero lanciare bandi per la rigenerazione urbana su piccola scala, che abbiano a riferimento aree circoscritte e da affidare a raggruppamenti di imprese commerciali, costruendo una progettualità per la nuova città e il nuovo commercio”. E servirebbe, secondo Confesercenti, la creazione di un’agenzia per il sostegno dell’impresa di vicinato e delle imprese diffuse, una collaborazione tra pubblico ed associazioni di imprese per dare vita ad imprese efficienti, preparate, integrate con il territorio, rispettose dell’ambiente e in linea con le nuove abitudini di vita e di consumo degli italiani.
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