Non racconta di vino solo come bevanda, ma vi addensa attorno tutto un mondo, in senso ampio e molto élitario, che poi si sforza di esplorare attraverso una serie di passaggi culturali, economici, sociali e morali. Perchè il vino “consumato con moderazione e consapevolezza, è un elemento positivo e benefico: rappresenta non solo un piacere sensoriale, ma anche un legame con la tradizione, la cultura, la terra. È un simbolo antico ma vivo, in contrasto con la freddezza e l’alienazione delle bevande moderne”. Torna nelle librerie la ristampa integrale di “L’arte di bere”, a oltre 90 anni dalla sua pubblicazione nel 1933, di Umberto Notari (Edizioni Ampelos, 136 pagine, 14 euro), scrittore e giornalista bolognese, fondatore di numerose riviste, tra cui, nel 1929, “La Cucina Italiana”.
Da un punto di vista economico-sociale, il lavoro di Notari è ben collocato, come scrive Simone Fagioli nell’introduzione del libro. I primi anni Trenta stanno in bilico sia per un fragile sistema economico mondiale, che ovviamente coinvolge l’Italia, sia appunto per la necessità del fascismo di consolidarsi. In questo quadro apparentemente dispari il vino sta perfettamente in mezzo. Se ancora non è una rilevante risorsa economica nazionale - ma per altro neppure da sottovalutare, in netta crescita - si pone comunque nel rilancio e ristrutturazione dell’agricoltura come sistema imprenditoriale, con una strizzata d’occhio alla tradizione. In quest’ultimo senso può essere veicolato come elemento identitario, che viene da lontano, dalla Grecia ma soprattutto da Roma, un simbolo perfetto per la costruzione della retorica nazionalista. Anche se ci sono in questa visione alcuni rischi. Il dibattito che si innesca con il Proibizionismo - e nel romanzo se ne parla - negli Stati Uniti, pur se tocca l’Italia in modo marginale, insinua qualche dubbio sul “valore” degli alcolici. In particolare il vino sta in bilico tra chi lo considerava un elemento “salutare” e chi lo vede come un pericolo per la società. Notari, ben a conoscenza di tutti questi aspetti, prende con “L’arte di bere” una posizione chiara: il vino non è solo una bevanda, ma appunto un’arte (ovvero un valore, un sistema), un elemento fondamentale della civiltà mediterranea, e allo stesso tempo un’opportunità economica per l’Italia, non solo ovviamente sul piano nazionale, continua Fagioli.
Umberto Notari in “L’arte di bere” non parla di vino solo come bevanda, non è in qualche modo un testo “gastronomico” o addirittura “fisiologico”, ma vi addensa attorno tutto un mondo, in senso ampio molto élitario, anzi, aristocratico, ma che si sforza di esplorarne tutti i passaggi culturali, economici, sociali, morali. Come accennato, scrive Simone Fagioli, il vino viene da lontano, è davvero una “radice” della civiltà, ne simboleggia i valori più elevati e sacri, la convivialità e l’armonia. In questo senso, ed è uno slittamento narrativo non secondario, la modernità che demonizza questa bevanda, o peggio la sostituisce con altre ben più nefaste, come i cocktail, il the o addirittura l’acqua minerale, e la combatte con il proibizionismo, è da ricusare in toto. L’alcolismo esiste, senza dubbio, ma il vino consumato con moderazione, è salutare. “Fanno tanta cagnara contro il vino per trenta casi di morte dovuta ad alcolismo e non aprono bocca sulle diecimila vittime prodotte ogni anno dall’automobilismo. Perché non si scagliano queste marmotte anche contro l’automobile? Perché? Perché?”.
Il vino italiano poi, secondo Notari, è il migliore di tutti, un bene da valorizzare in ogni modo. Un simbolo nazionale incontrovertibile. E guai a chi considera il vino come un mero bene di consumo: si tratta di arte e piacere, che va conosciuto con la giusta sensibilità, con educazione Il vino, consumato con moderazione e consapevolezza, è un elemento positivo e benefico. Rappresenta non solo un piacere sensoriale, ma anche un legame con la tradizione, la cultura, la terra. È un simbolo antico ma vivo, in contrasto con la freddezza e l’alienazione delle bevande “moderne”. E con queste coordinate allora “L’arte di bere” ci racconta un aspetto che già un medico pistoiese del Settecento, Antonio Matani, aveva ben chiaro: “la qualità e la conoscenza del prodotto ne valorizzano tutti gli aspetti e fanno sì che non si trasformi in vizio”.
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