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SOSTENIBILITÀ IN VIGNA

Agricoltura biologica, il vino come modello. Per valori e capacità di legare ambiente e territorio

Da Fieragricola focus su “Biologico: futuro dell’agricoltura?”, con Assobio, Federbio e Aiab. Ma resta da sciogliere il nodo della burocrazia
BIOLOGICO, FIERAGRICOLA, vino, Italia
Agricoltura biologica, il vino come modello. Per valori e capacità di legare ambiente e territorio

Viticoltura e vino bio made in Italy sono la “volpe” che corre davanti a tutta l’agricoltura bio italiana e non solo per primato di superficie (19% sul totale della viticoltura nazionale), di produzione e di esportazione, ma per la sinergia espressa dai vini a marchio europeo tra l’identità territoriale e il metodo di produzione rispettoso dell’ambiente. Solo negli ultimi tre anni il vino bio ha riscosso un interesse molto forte quanto inaspettato, forse a causa della mutata sensibilità dei consumatori rispetto alla sostenibilità, un effetto secondario positivo legato anche alla pandemia.
“Il consumatore è sovrano e i cambiamenti impressi dalla domanda hanno fatto sì che le superfici a bio crescessero, ma se la produzione aumenterà più della domanda il bio potrebbe essere a rischio di “commodizzazione”- ha sottolineato Angelo Frascarelli, economista dell’Università di Perugia, nella sua prolusione al convegno “Biologico: futuro dell’agricoltura?”, organizzato a Fieragricola (la più longeva fiera italiana di settore, di scena da oggi al 5 marzo, a Verona) dalla rivista “L’Informatore Agrario” (proprio nel giorno in cui il Senato dellaRepubblica ha dato il via libera definitivo alla nuova legge sul biologico in Italia, ndr). Ora che gli indirizzi della Pac, tra Green Deal e Farm to Fork hanno fissato, rispettivamente, la neutralità climatica per il 2050 e il raggiungimento di una superficie in bio entro il 2030, e stanziato cospicue risorse, superfici e offerta cresceranno ulteriormente. Tra Pac e politiche nazionali il bio in Italia potrà contare su 630 milioni di euro all’anno. Il rischio commodity, però, non riguarda strettamente il livello del prezzo, quanto la sua determinazione solo in base all’equilibrio tra domanda e offerta, e si può evitare collegando le produzioni bio alla distintività territoriale. Anche perché la nostra agricoltura produce a costi alti e deve vendere a prezzi alti prodotti che oltre alla qualità intrinseca abbiano anche valori territoriali ed emozionali”.
La preoccupazione dell’economista dell’Università di Perugia Angelo Frascarelli è supportata anche dalla definizione di “bio” che altro non è che un metodo di coltivazione, che si può applicare dappertutto e per questo può diventare commodity. Tuttavia il vino italiano a marchio europeo appare al riparo dal rischio paventato proprio perché, come detto, ha trovato esattamente questo tipo di sinergia tra produzione territoriale e biologico. “Negli ultimi anni - ha confermato Roberto Zanoni, presidente Assobio - c’è stata una forte evoluzione. È aumentata fortemente la richiesta in tutto il mondo e l’Italia ha convertito e sta convertendo abbastanza velocemente la produzione, e quindi ci troviamo in un momento in cui il Belpaese sta approfittando di questo trend. Siamo i primi produttori di vino bio e anche i primi esportatori. Mi auguro che, anche con il prossimo Vinitaly (dal 10 al 13 aprile, sempre a Verona), possa esserci una spinta significativa. Si stanno convertendo al bio molte aziende importanti, e questo anche per l’immagine del vino italiano nel mondo è particolarmente positivo. Se oggi la domanda è forte e la produzione la sta inseguendo, è anche grazie alla crescita qualitativa del vino bio, che anni fa non era eccezionale e non godeva di una elevata considerazione da parte dei consumatori e della ristorazione. Poi ha fatto un salto qualitativo importantissimo e vince premi in tutto il mondo. E oggi la domanda è sostenuta oltre che dall’aspetto ambientale anche dalla qualità sensoriale”.
Se le prospettive di mercato per il vino bio appaiono favorevoli, dunque, escludendo il rischio di sbilanciamento tra domanda e offerta, la sua produzione presenta comunque delle criticità. È necessario, inoltre, un supporto alla produzione e anche alla domanda, pervenendo ad una trasparenza che garantisca il consumatore. Ed a una piattaforma che raccolga tutti i soggetti coinvolti, consultabile dai consumatori, si sta pensando.
“Avere un Piano Strategico Nazionale della Pac che investe sul bio, sia in termini di produzione che di mercato e di supporto agli agricoltori, può favorire ulteriormente il mantenimento e la crescita del vigneto bio in Italia - ha sottolineato Maria Grazia Mammuccini, presidente Federbio (e produttrice di vino in Toscana, nel Valdarno, ndr) - che insiste sul 19% della superficie totale, con la percentuale più alta nel mondo, già di per sé un trend straordinario. I temi strategici su cui lavorare sono la ricerca e l’innovazione per supportare i viticoltori al meglio sui punti critici della gestione del vigneto e della cantina. Gli andamenti di mercato dicono che il trend del vino bio è tra quelli più positivi e quindi il settore va supportato perché c’è lo spazio che può valorizzare sia i produttori che i territori”.
I costi elevati per la certificazione, l’esagerato impegno burocratico e il rischio di multe per errate compilazioni di registri sono deterrenti importanti, soprattutto in altre colture, per la rivendicazione della produzione in bio e determinano la “fuoriuscita” di molte aziende dal sistema, che pure continuano a produrre secondo i dettami del biologico. Una situazione meno frequente in viticoltura.
“Il logo del bio apposto sulle bottiglie di vino - spiega Mammuccini - è un valore per il mercato, e per questa ragione molti viticoltori hanno aderito al bio, oltre che per utilizzare le risorse dei Psr e, in futuro, quelle del Piano Strategico Nazionale. È stata l’attrattiva di mercato ad essere stata determinante. E poi per i vini a denominazione è vincente unire l’identificazione con il territorio a un metodo produttivo che lo rispetta. Questo crea il valore aggiunto. Sul piano burocratico, però, c’è una pesantezza quasi insostenibile, anche perché dobbiamo tenere sistemi separati. Cioè chi produce, trasforma e vende, ogni mese deve inviare i dati al Sian, e questo già garantisce una trasparenza totale, tuttavia poi deve tenere altri registri per giustificare gli altri sistemi di controllo. Si deve arrivare a una razionalizzazione perché se per tutti la burocrazia è un problema, per il settore viticolo tra certificazioni per la denominazione e per il bio i costi burocratici diretti e indiretti sono davvero troppi”. Alla viticoltura bio, in ogni caso, deve essere riconosciuto anche il ruolo da apripista rispetto al settore convenzionale, viticolo e anche agricolo in generale. “Oggi si dà per scontato - spiega a questo proposito Cristina Micheloni (Aiab) - che il vino si fa in vigna, ma 20 anni fa non era così, e una parte del merito di questa rivoluzione è del bio, che ha puntato a lavorare bene in vigneto per non aver bisogno di troppa chimica in cantina. Questo, tra mille difficoltà e ancora con ampi margini di miglioramento, ha avuto il merito di riportare al centro il vigneto e ha rafforzato il legame con il territorio e la vocazionalità. Proprio per i vini più connotati territorialmente la sfida del bio è di maggiore soddisfazione sulla qualità del prodotto. E ha un ruolo ulteriore. Vedo la viticoltura bio come la “volpe” da inseguire che corre davanti al resto dell’agricoltura biologica perché è la coltura che ha più numeri, perché il vino è un prodotto fortemente legato al territorio, e perché è un settore più ricco degli altri che ha potuto pagarsi sperimentazione e assistenza tecnica. Inoltre, il sistema produttivo della viticoltura è in larga parte a filiera molto corta, cioè tra chi produce uva e chi il vino ci sono pochi passaggi, se non nessuno. Questo ha permesso di mantenere e reinvestire valore nelle aziende. Diversamente da quanto accade in filiere lunghe come per esempio quella dei cereali, dove tra il grano e i biscotti il valore si disperde lungo la filiera in maniera più o meno omogenea. Ed aggiungo che oggi che il costo dei fertilizzanti sta diventando incompatibile con i prezzi di vendita dei prodotti, non tanto in viticoltura, quanto per altre colture come i seminativi, pratiche introdotte in agricoltura bio, come sovescio, inerbimento con leguminose e trasemine, diventano appetibili e molti le provano anche in viticoltura per abbattere i costi”.

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