
Terza agricoltura europea per valore alla produzione con 74,6 miliardi di euro, dietro a Germania (75,4) e Francia (88,4), ma leader come valore aggiunto generato (42,4 miliardi di euro), l’agricoltura italiana è una risorsa per l’economia italiana, ma si trova davanti tante sfide da affrontare (comprese le difficoltà) in un mondo che muta velocemente. Agricoltura italiana che, tra performance congiunturali e caratteristiche strutturali, cambiamenti climatici ed evoluzioni di mercato, aree interne e scenari internazionali, è stata al centro del report Nomisma “L’agricoltura italiana tra nuovi scenari geopolitici e obiettivi di competitività”, presentato, nei giorni scorsi, dal responsabile agroalimentare Nomisma, Denis Pantini, a Roma, in occasione della Conferenza Economica n. 10 di Cia-Agricoltori Italiani.
La forza del settore primario italiano deriva da una forte specializzazione e vocazionalità del proprio modello agricolo (incentrato su prodotti distintivi di alta qualità e spesso inseriti in filiere Dop e Igp), che conduce a una valorizzazione media unitaria per ettaro tra le più alte a livello europeo (3.400 euro a ettaro di valore aggiunto contro una media Ue di meno di 1.500 euro a ettaro). Eppure, negli ultimi cinque anni, ha ricordato la nota della Cia-Agricoltori Italiani, “la crescita del valore aggiunto agricolo in termini reali non ha seguito il trend di quelli correnti, alla luce di una sensibile riduzione delle quantità prodotte determinata da avverse condizioni climatiche. Anche in termini correnti, comunque, il tasso di crescita del valore aggiunto agricolo italiano (27%) è risultato inferiore a quello dei diretti competitor come Spagna (+41%), Polonia (+39%) e Germania (+34%), in considerazione di una maggior dinamicità competitiva delle aziende agricole degli altri Paesi Ue”.
La dinamicità competitiva degli altri Paesi Ue discende anche da una differente struttura imprenditoriale che, come risaputo, per l’Italia presenta una forte polverizzazione e che rende più difficile recuperare divari di inefficienza (ad esempio attraverso economie di scala): basti infatti pensare che, mentre in Francia o Germania le aziende agricole con superficie superiore ai 50 ettari sono rispettivamente il 43% e il 31% del totale nazionale, in Italia tale incidenza è appena pari al 4%. Parallelamente, le aziende con valore della produzione superiore ai 100.000 euro raggiungono il 36% in Germania e il 46% in Francia, mentre in Italia non superano il 10%.
I limiti strutturali aziendali, evidenzia il report, incidono sulla redditività del settore e spiegano, in larga parte, la minor presenza di giovani imprenditori (sotto i 35 anni) nell’agricoltura italiana rispetto agli altri Paesi Ue: il 5% contro l’8% in Germania e il 10% in Francia. In Italia, il 27% delle aziende agricole sono condotte da persone tra i 35 ed i 55 anni, e il 67% ha oltre 55 anni, una percentuale, quest’ultima, che è la stessa della Spagna. Una bassa incidenza che appare “comune” alle diverse aree del Paese, ma che ha visto gli ultimi cinque anni condurre a un maggior calo nelle regioni del Sud (-15% la presenza di imprese giovanili contro il -3,4% del Nord Italia ed il 10,3% del Centro tra il 2019 e il 2024).
Proprio per ovviare a questi limiti strutturali, le imprese agricole italiane sono andate a cogliere le diverse opportunità di mercato (anche al di fuori del core business produttivo) che si sono presentate, sia in virtù di nuovi trend di consumo che di “spazi” aperti da politiche europee e nazionali di sviluppo. Le cosiddette attività di supporto e secondarie pesano oggi per il 19% sul valore della produzione agricola nazionale. Tra queste, il valore della produzione di energia rinnovabile è cresciuto del 18% negli ultimi quattro anni (2019-2023), mentre quello dell’agriturismo del 24%. Ancora più notevole la crescita della trasformazione di prodotti agricoli (+34,6%) e della manutenzione del terreno (+29,9%).
Oltre alla polverizzazione aziendale, spiega ancora la nota della Cia-Agricoltori Italiani, il settore primario italiano da svariati anni deve fare i conti con effetti devastanti sulla produzione agricola derivanti dai cambiamenti climatici. In primis, da temperature medie sempre più alte e con deficit idrici che toccano tutte le regioni (e non più solo quelle del Sud). Senza tralasciare gli impatti che i disastri da avversità climatiche (cresciuti in Europa del 221% tra il 2015 e il 2023) producono su un suolo, come quello italiano, estremamente fragile e per il 47% definito “in cattivo stato di salute”, dove proprio l’erosione rappresenta il principale fattore di degrado.
Il tema della tutela idrogeologica, obiettivo prioritario per la salvaguardia delle comunità locali, si collega necessariamente al mantenimento degli agricoltori nelle aree interne, vale a dire in quelle zone “svantaggiate” (principalmente montane e collinari) dove risulta più difficile generare reddito e quindi a rischio di “continuità produttiva”. Eppure, gran parte delle produzioni agricole italiane oggi sono ottenute in collina e montagna (tanto che il valore della produzione agricola italiana ottenuta in montagna vale 5,5 miliardi di euro, vale a dire l’equivalente di quanto prodotto dall’intera Regione Sicilia), soprattutto per quanto riguarda i “fiori all’occhiello” del made in Italy alimentare: il 61% del vigneto Italia si trova in zone montano/collinari, così come il 69% degli oliveti, il 64% dei frutteti, ma anche il 44% degli allevamenti bovini e l’83% di quelli ovicaprini. Con la permanenza degli agricoltori nelle aree interne che “diventa sempre più difficile, alla luce della continua riduzione o della mancanza dei servizi “di base” in un Paese, come l’Italia, in cui il 32% della superficie è classificata come area periferica o ultra periferica (dove la distanza, in quest’ultimo caso, dal più vicino polo di attrazione supera i 75 minuti di percorrenza), con regioni come la Basilicata, la Sardegna o il Trentino Alto Adige in cui tali aree superano il 60% della superficie regionale”.
Quindi, ci sono l’economia e gli scenari internazionali. Dal Covid in poi, i mercati hanno vissuto rilevanti fasi di tensione generate prima da fiammate inflazionistiche, a seguire da congiunture economiche negative che hanno depresso i consumi, anche alimentari, mai tornati ai livelli pre-pandemia (circa 161 miliardi i consumi domestici nel 2023 contro i quasi 165 nel 2019; 81,5 miliardi i consumi fuori casa nel 2023 contro gli 87,5 nel 2019). In questo scenario di forti turbolenze, se il mercato nazionale non sembra aver ancora recuperato il livello di consumi alimentari pre-Covid, l’export agroalimentare italiano ha invece raggiunto un nuovo record, superando nel 2024 i 69 miliardi di euro.
A far preoccupare, ora, è la questione dei dazi Usa sui prodotti europei, ipotesi che appare sempre più concreta. “L’applicazione di dazi aggiuntivi (dell’ordine del 25%) sulle importazioni europee - spiega la nota - sembra discendere dalla volontà politica di riequilibrare la bilancia commerciale statunitense che, in merito alle merci scambiate, risulta sensibilmente in deficit per molti Paesi, tra cui la Cina (-256 miliardi di dollari) e appunto l’Unione Europea (-208 miliardi di dollari). Per quanto tale deficit si riequilibri se, unitamente alle merci si contabilizzano gli scambi di servizi (nettamente a favore degli Stati Uniti), l’applicazione di tali dazi rischia di generare rilevanti impatti nell’export agroalimentare italiano che, tra tutti i Paesi Ue, risulta il più esposto (sfiorando il 12% del valore totale) sul mercato americano”.
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