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ALLARME MIELE: LE API HANNO SMESSO DI PRODURLO A CAUSA DELL’INQUINAMENTO E DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Le api hanno smesso di fare il miele. Non solo: stanno lentamente scomparendo. Della gravissima ecatombe di questi insetti indispensabili alla nostra vita - è grazie alla loro opera di impollinazione che gran parte delle coltivazioni vanno avanti - si parla molto in questo periodo (il prestigioso quotidiano francese "Le Monde", nei giorni scorsi, ha dedicato una serie di articoli alla strage delle api). Da Montalcino, patria della "Settimana del Miele" (quest’anno dal 6 all’8 settembre), appuntamento leader dell’apicoltura e punto di incontro nazionale per le problematiche del settore, viene lanciato l’allarme.
Francesco Panella, presidente dell’Unione Nazionale Apicoltori Italiani, associazione di categoria che raccoglie i produttori di miele, spiega: «E’ ancora presto per fare un bilancio definitivo – per il quale si dovrà attendere la fine dell’estate – ma una prima stima parla per l’Italia di circa il 50% in meno di miele prodotto rispetto allo stesso periodo del 2001. E’ un dato doppiamente negativo perché, in seguito al blocco dell’importazione di miele dalla Cina a causa della presenza di antibiotici, questo poteva essere un anno d’oro per il miele italiano».

Due le cause principali della progressiva moria delle api, animali sensibili al punto di essere considerati veri e propri "termometri" ambientali: la prima è ricollegabile allo sconvolgimento climatico del pianeta, che influisce sull’attività delle api impedendo le raccolte di miele abituali fino a pochi anni fa. La seconda è una crescente mortalità dovuta a diversi ed estesi fenomeni di inquinamento per colpa degli insetticidi sistemici usati in agricoltura. Una delle principali accusate è l’imidacloprid, molecola commercializzata da una multinazionale: il suo principio attivo non viene come da tradizione cosparso sulle colture, ma inglobato all’interno delle sementi (girasole, mais, grano), per poi essere rilasciato lentamente dalla pianta durante la crescita. Le api vengono a contatto con la sostanza presente, in dosi infinitesimali, nel nettare e nel polline dei fiori e non sopravvivono. La questione, sollevata inizialmente dagli apicoltori francesi, ha trovato riscontro di quelli di altri Paesi europei (Italia, Belgio, Austria, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna), tanto che la Commissione Europea sta aprendo un dossier sulla questione dell’imidacloprid.
L’inquinamento da trattamenti chimici delle culture vede, in Italia, un altro fronte di vaste stragi d’api. Nelle regioni del Nord per combattere la flavescenza dorata, grave malattia della vite causata da un virus, i vigneti vengono irrorati con sostanze chimiche che uccidono l’insetto vettore dell’epidemia. Peccato che questi trattamenti fanno “terra bruciata” non solo nel vigneto, ma anche nella vegetazione circostante dove le api vanno tradizionalmente a prelevare il nettare, provocando così una moria indiscriminata degli sciami.

«Se da una parte il miele non rischia contaminazioni, in quanto le api muoiono prima di produrlo, dall’altra le conseguenze per i consumatori di questo “apicidio” di massa si faranno presto sentire - dice Panella - Prima di tutto un innalzamento sostanzioso dei prezzi al consumo, ed in secondo luogo un aumento delle importazioni di miele proveniente da altri Paesi, Argentina e Messico in testa (in Italia ne vengono prodotte ogni anno dalle 8.000 alle 11.000 tonnellate, per un giro di affari annuo che si aggira sui 57-62 milioni di euro).

In tutto il mondo la popolazione delle api sta vivendo una grossa crisi a causa dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, ma in questi Paesi il consumo interno di miele è irrilevante, e tutto il prodotto è destinato all’esportazione. Non vogliamo assumere atteggiamenti catastrofici, ma se continua questo trend il rischio è di arrivare ad un punto di non ritorno. Questo eccidio in massa delle api è già in atto da una decina d’anni, ma negli ultimi tempi sta assumendo dimensioni eclatanti. Di questo passo gli apicoltori (in Italia sono circa 50.000, di cui 7.500 che fanno di questa attività fonte importante del loro reddito) potrebbero essere costretti ad abbandonare la loro attività, e ciò significherebbe una gravissima perdita non solo per il nostro patrimonio alimentare tipico, ma conseguenze di ben più ampia ed incalcolabile portata per tutta l’agricoltura e gli equilibri ambientali. Varrebbe, forse, la pena di riflettere su quanto ebbe a dire Albert Einstein: "Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita".

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