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Continua la “guerra del Prosecco” dell’Australia, che rivendica, contro l’Italia il diritto di utilizzare il nome Prosecco per la sua produzione spumantistica, che punta a raggiungere i 200 milioni di dollari australiani in valore nel 2020

Il Prosecco, tra Doc e Docg, traina la crescita delle bollicine e, con esse, quelle del vino italiano. Ma sullo sparkling wine di maggior successo degli ultimi anni, e sul suo nome, puntano sempre di più anche i produttori australiani. Che si dedicano sempre di più alla produzione spumantistica, e che rivendicano il diritto, secondo loro, di chiamarla Prosecco, in un braccio di ferro che va avanti da tempo, tra Australia ed Italia, e che è tornato di attualità dopo che la Winemaker’s Federation of Australia, ha ospitato un evento a Canberra dove ha mostrato ai parlamentari australiani le potenzialità del “Prosecco in Australia, una varietà di vino che già vale 60 milioni di dollari australiani (intorno ai 38 milioni di euro, ndr), ed è in rapida crescita”, spiegano dalla Federazione, che con questo evento ha di fatto chiesto l’ulteriore supporto della politica australiana (https://goo.gl/yNXLQQ).
Ed il cui chief executive, Tony Battaglene, al giornale economico “Australian Financial Review”, ha dichiarato in maniera chiarissima: “siamo conviti di avere il diritto legale di usare il nome Prosecco, e difenderemo la nostra posizione fino in fondo” (https://goo.gl/5CmfQU).

La motivazione che sostengono i produttori australiani è che, quando il vitigno è arrivato in Australia (prima che il Prosecco Igt passasse a Doc, e che la Doc, allora riservata al Conegliano Valdobbiadene, diventasse Docg, nel 2009, ndr) si chiamava semplicemente “prosecco”, e poco importa, se ora nel disciplinare di produzione sia del Prosecco Doc che del Conegliano Valdobbiadene Superiore Prosecco Docg l’uva principale da cui nasce, nelle due denominazioni italiane, si chiama Glera. Denominazioni che, ricordiamolo, in quanto tali tutelano i vini solo in ambito Ue, a meno che non siano ratificate in accordi bilaterali, come avvenuto, per il Prosecco italiano, in Usa, Canada e Cina, per esempio, o siano registrate in qualche modo come marchi commerciali.

“È un po’ come se i francesi decidessero di proibire a tutti l’utilizzo del nome “chardonnay” creando una denominazione chiamata Chardonnay”, aggiunge Michael Dal Zotto, figlio di Otto Dal Zotto, primo a piantare prosecco in Australia, nella sua cantina nella King Valley, nel 1999.
Insomma, lo scontro è aperto, anche perchè i produttori australiani parlano, senza mezzi termini, di una “Australian Prosecco Industry” in grande crescita, il cui volume di affari punta a raggiungere i 200 milioni di dollari australiani entro il 2020, guardando in particolare al mercato domestico, e a quelli di Usa, Nuova Zelanda e Asia, Cina in primis. E Uk, ad oggi il primo mercato del Prosecco Doc e Docg italiano, in un Paese che, tra qualche tempo, sarà ufficialmente fuori dall’Ue, e che con l’Australia vanta uno storico rapporto commerciale e politico.
Una questione spinosa, sebbene i valori in campo siano diversissimi (il Prosecco italiano è una realtà che, tra Doc e Docg, mette insieme oltre 500 milioni di bottiglie, per un “fatturato” che supera i 2,7 miliardi di euro, ndr), e su cui l’attenzione dei produttori del Belpaese dell’Italia è alta, come già testimoniato nel recente passato:
“è importante il lavoro che sta portando avanti l’Unione Europea in sinergia con il Ministero dello Sviluppo Economico e Sistema Prosecco (la società che mette insieme i consorzi della Doc Prosecco, della Docg Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore e quello di Asolo Montello, nata proprio per tutelare la produzione prosecchista, ndr) dal 2009 - spiegava a fine 2017 a Winenews Innocente Nardi, presidente del Consorzio di tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg - e si basa sul riconoscimento di un know how, frutto di una cultura, un sapere, una tradizione che ci permette di produrre un vino come lo intendiamo noi: fresco, fruttato, croccante ... prodotto nel suo territorio ideale, che sono il Veneto e il Friuli. Se viene fatto altrove, non è paragonabile”. Questo punto in particolare, la riconoscibilità del vino, è esattamente il nocciolo della questione: “l’Unione Europea difende il diritto del consumatore di riconoscere il vino che compra - conclude Nardi - garantendogli le corrette informazioni”.

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