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Corriere Della Sera / Italie

Quei vitigni autoctoni in attesa di consacrazione ... Cotarella: “Per il futuro bisogna puntare sulla qualità”. Tra le migliori aziende Falesco e Colle Picchioni... Castelli Romani, Frascati, il vino del neorealismo, di Aldo Fabrizi. Troppo vicino alla Toscana, all’Umbria, alla Campania, il ruolo di cenerentola non è sfuggito a una regione che da anni cerca la consacrazione enologica. “Un rinascimento al rallentatore, rispetto al rilancio del vino italiano. Trascurato e sempre in aspettativa”, dice Riccardo Cotarella, uno degli enologi che hanno costruito il riscatto negli anni Novanta, dopo lo scandalo del metanolo. Proprio questo professionista, insieme al fratello Renzo, ha festeggiato lo scorso anno, i trent’anni della cantina Falesco, situata al confine con l’Umbria, nell’area di Montefiascone a ridosso del lago di Bolsena. Utilizzando l’autoctono Roscetto, vitigno a bacca bianca è stato realizzato il “Ferentano”, una etichetta di assoluto valore, così come il blend, “Est Est Est”, “Poggio dei gelsi”, altro bell’esempio di quanto i terreni composti di lapillo puro, a Montefiascone, possono dar vita. Riccardo Cotarella, 62 anni, è docente all’Università di Viterbo e grande appassionato dei vini di Bordeaux. “Nell’87 di ritorno da un viaggio a Saint Emilion e Pomerol, fui incantato dal Merlot prodotto in quella zona di Francia”. Il risultato furono nuovi impianti del vitigno internazionale, nell’alto Lazio. Il vino prodotto, in purezza, con l’etichetta Montiano, 80 mila bottiglie, è oggi, il fiore all’occhiello della Falesco, che per la parte laziale produce circa un milione e duecentomila pezzi. Ma, anche a meno di venti chilometri dal centro di Roma, ai Castelli Romani, alla storica azienda Colle Picchioni di Paola Di Mauro e del figlio Armando, il Merlot ha trovato una bella consacrazione nel blend che compone “Il Vassallo”, il vino di punta della proprietà insieme al bianco, “Marino Donna Paola”. Tra la storia e l’attualità, il Lazio enologico respira verso un futuro di vitigni autoctoni. Dove il Cesanese del Piglio cattura attenzione. In particolare la cantina di Antonello Coletti Conti, discendente di una antica famiglia di Anagni, che ha dato ben cinque pontefici. L’etichetta “Romanico”, rappresenta il vanto della Docg, ottenuta qualche mese fa. Le caratteristiche di questo vitigno sono consolidate nei profumi di china, spezie, frutti neri e note balsamiche. Stessa cifra per il “Dives”, prodotto da Marcella Giuliani, determinata nella valorizzazione del territorio ciociaro e convinta nella scelta del biologico. Un’opzione voluta anche da Fabrizio Santarelli per la sua azienda, la Castel de Paolis, a Grottaferrata. Seguito dal professor Attilio Scienza, quest’angolo dei Castelli Romani, si è confermato affidabile nella produzione e nelle prospettive. I bianchi meglio dei rossi, con davanti a tutti il “Donna Adriana”, blend di Viognier, Malvasia del Lazio e Sauvignon. Il futuro non lascia spazio immediato a grandi exploit. Alcune cantine fanno ben sperare e l’utilizzo di vitigni autoctoni potrebbe essere una prima concreta risposta. È il caso di Poggio Le Volpi, a Monteporzio Catone, dove Felice Mergè, mette in bottiglia, da uve Nero Buono di Cori, il “Baccarossa”: “Ci crediamo per primi, e vogliamo creare curiosità nel consumatore”, dice l’enologo. E ad Atina, nella provincia di Frosinone, c’è la giovane azienda di Lucio Mancini, La Ferriera, che sorge in una suggestiva zona, dove venivano fabbricate palle da cannone. Anche qui interessante utilizzo di un vecchio vitigno: l’Atina Cabernet, il cui clone è noto dal 1912. “C’è futuro se si fa qualità e si riparte da zero senza dimenticare la storia. Prima del Tignanello e del Sassicaia un signore, di nome Ludovisi, produceva il “Fiorano”. Nella zona di Ciampino, su terreni di natura vulcanica. Antinori, sta creando progetti per rilanciare quel vino. Potrebbe diventare un sicuro punto di riferimento”, conclude Renzo Cotarella.

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