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LA VERSIONE DI RÉMY

Dai brand che fanno crescere le denominazioni agli investitori stranieri: a WineNews, Rémi Krug

L’icona mondiale: chi fa qualcosa di positivo per la propria azienda porta valore a tutta la denominazione. Gli investimenti stranieri? Una necessità
CHAMPAGNE, DENOMINAZIONI, KRUG, LVMH, MARCHI, Italia
Rémi Krug, lucido osservatore del mondo del vino con WineNews

“Una denominazione è fatta di “giocatori”, gli imprenditori, i marchi, le cooperative. C’è, dunque, chi è più bravo degli altri, perché fa un vino migliore o lo sa vendere meglio. Queste realtà si posizionano come una locomotiva che tira tutta la denominazione. Poi c’è chi è nella media e chi è indietro. Purtroppo l’unicità non esiste. C’è chi ha più talento e chi meno. In una stessa denominazione ci sono aziende che hanno creato un’impostazione del brand staccato dalle logiche comunicative della “appellation”. Ma queste fanno bene, perché se sono un po’ staccati, possono tirare di più. Quello che fa male alla denominazione è chi produce un vino cattivo e che non lo sa vendere. Non si può dire se la denominazione deve superare la marca o viceversa, stiamo parlando di esseri umani, talenti e visibilità, e di conseguenza in ogni denominazione ci saranno le locomotive”. Come i Grand Cru a Bordeaux, o i grandi marchi in Côtes du Rhône, e nel caso della Champagne, ovviamente. Ecco la versione di Rémi Krug, uno dei personaggi mito dell’enologia mondiale, invitato dal Consorzio “Italia del Vino”, a tu per tu con WineNews di fronte ad un calice di vino. Esperto di brindisi, arte in cui tutti, bene o male, se la possono cavare, già patron della Maison di famiglia icona dello Champagne, dal 1973 al 2007, anno in cui è andato in pensione, ciò in cui il francese ha eccelso nella sua vita lavorativa è stato creare un marchio, oggi di proprietà del Gruppo del lusso Lvmh. Marchi in eterno rapporto di forza con le denominazioni, che deve essere gestito, tra l’importanza di creare brand più forti o l’affidarsi al loro cappello.
Dagli anni Sessanta, la legislazione, in Italia, è stata indirizzata verso l’affermazione delle denominazioni. Nel caso poi dei fenomeni di espansione del valore e dell’equity di una denominazione si verificano bolle speculative per le quali il prezzo al litro del vino crolla e alcuni “rapaci” sono pronti a sacrificare la qualità facendo massa. “Innanzi tutto non bisogna esagerare - dice Krug - non bisogna andare troppo veloce e fare le cose passo per passo. Se c’è una zona così, in grado di creare valore. La denominazione è un insieme di norme, creata dallo stato per garantire l’autenticità e tutelare la qualità, deve per forza avere una quadratura. La denominazione deve semplicemente essere credibile e corrispondere ad una garanzia di autenticità e qualità. Oggi una bottiglia di Champagne è garantita dalle regole più severe del mondo. All’interno di queste regole ognuno è libero di creare il proprio stile. Come nella musica, non tutti possono essere Mozart”.
Camicia a righe, cravatta rossa adornata con simboli naïf e giacca di tweed, si presenta così Rémi Krug, incontrando i vignerons del Consorzio Italia del Vino e dopo aver “arringato” manager e produttori sull’importanza del brand, in Santa Margherita, la griffe del Pinot Grigio nel mondo (Fossalta di Portogruaro). Classe 1942, la sua visione del mondo del vino è attualissima e declinabile al panorama enoico italiano. Italia in cui, dalla Francia e non solo, negli ultimi anni tanti stranieri hanno investito e stanno investendo, proprio come nella Champagne. “È un fatto di vita. Un fatto di energia e di capacità. In Champagne, ad esempio, all’inizio si è sempre criticato i nuovi arrivati e poi dopo anni si è visto che le cose andavano. C’è anche chi viene e vuole insegnare a tutti gli altri come fare perché sostiene che prima di lui nessuno ha fatto bene. E poi dopo tre o quattro anni vendono la Maison. Insomma la Champagne assorbe chi è bravo. E chi non è bravo sparisce. Gli stranieri fanno parte del mondo, della vita. Senza gli investitori stranieri non ci sarebbe Bordeaux, sono una necessità”. La capacità di un territorio di attrarre investitori, del resto, è indice di uno stato di salute positivo e anche di aver costruito una visione a lungo termine per il comparto economico. “Dove ci sono più investitori significa che c’è un territorio accattivante. Ma soprattutto non dipende da dove arriva l’investitore, ma cosa ha in testa. Se si tratta di un investimento per costruire qualcosa, per creare valore in un arco di minimo dieci anni, allora è un bene per tutti. Chi fa qualcosa di positivo per la propria azienda allora porta un valore a tutta la denominazione. Chi fa qualcosa di brutto danneggia tutti. Chi, ad esempio, viene in Champagne, e prende una marca addormentata e la rende più viva e più bella crea un valore. Invece chi irrompe sul mercato e investe per sparire dopo due anni abbassando i prezzi per piazzare il prodotto nei supermercati fa male, a prescindere da fatto che sia cinese, americano o russo”.
Una visione lucida anche sul nostro mondo, quello della comunicazione. “Ho vissuto con i giornalisti di tutto il mondo dal 1970, quando ho deciso di iniziare a comunicare la mia azienda”, racconta Krug. La domanda, con cui i giornalisti sono soliti chiedere ai produttori il numero di bottiglie, o di litri prodotti, “messa così in maniera pesante, attenta alle cifre è tipica un po’ dei giornalisti americani e un po’ di quelli italiani”, mentre i colleghi francesi sembrano più riluttanti a questo quesito. “Al di là di questi, nessuno chiede queste cose. Una risposta ad una domanda di questo genere deve avere un senso. Se dico “questa azienda fa 10 milioni di bottiglie” sembra tanto, per chi non beve vino. Invece per chi è abituato a produrlo sa che non sono cifre così grandi, dipende anche dalla zona. A Bordeaux, ad esempio, è un numero da Châteaux. Quindi, ci deve essere una relatività e senza questa considerazione una risposta che è solo ed esclusivamente non serve a niente”.
La nostra ultima domanda, invece, è questa: per un artefice di un brand di lusso non solo come Krug, ma come Champagne, nel 2019 ci sono spazi e nuovi mercati in cui si può avere margine di manovra per crescere in termini di vendite? E quale sarà il futuro dei vini “icona”? “Prima di tutto c’è spazio per tutto il vino. Perché la qualità è migliorata tantissimo, ovunque. È difficile trovare vini di cui non si finisce il bicchiere. La tendenza che si evidenzia è che il consumatore vuole bere meglio e di meno. Nel futuro dei grandi vini icona c’è una domanda che cresce. Basta guardare alle nuove rotte commerciali in Cina. Il mercato del futuro sarà l’India che oggi è proibitiva dal punto di vista delle tasse”.

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