Il futuro della cooperazione vitivinicola trentina passa dall’integrazione tra i grandi colossi delle cooperazione vitivinicola che fanno qualità e che hanno grandi mezzi di distribuzione all’estero, e i piccoli produttori che cercano vini più particolari e diversi ma legati al territorio: questo, in sintesi, il pensiero del professore Attilio Scienza, una delle voci più autorevoli del panorama enologico internazionale e docente di viticoltura all’Università di Milano, espresso a Trento nel convegno “Cinquant’anni: l’uomo, la vite, il vino” della Mostra dei Vini del Trentino, sul futuro del vino trentino che, negli ultimi 50 anni, ha sempre seguito la rotta della qualità, raggiungendo livelli altissimi in tema di qualità e di rapporto con il prezzo.
“Ormai - spiega Scienza - la cooperazione, in Trentino, ha in mano il 90% della produzione, il restante 10% è rappresentato da piccoli produttori che si sforzano di fare vini molto più personalizzati, sfruttando meglio le risorse del territorio, investendo nella capacità di fare vini diversi con nomi non solo di vitigno ma di vigneto, ma che si trovano davanti le grandi quantità e qualità che fa la cooperazione, con un rapporto qualità/prezzo formidabile, ma soprattutto con la difficoltà ormai insuperabile per loro di vendere il vino all’estero”.
Il mercato italiano, infatti, secondo il professor Scienza, è fermo, e quindi anche per questi piccoli produttori è fondamentale andare all’estero, ed è qui che l’integrazione con in giganti della cooperazione diventa importantissima.
“Oggi non si va più sui mercati esteri - aggiunge Scienza - come 10 anni fa, trovando il piccolo rivenditore che vendeva le 15-30mila bottiglie. Oggi il mercato è in mano a poche, grandi aziende che hanno bisogno di grani masse critiche, e anche di vini che costano relativamente poco, perché la concorrenza del nuovo mondo è forte. È difficile vendere un territorio o una provincia molto piccola che non hanno la forza del Piemonte o della Toscana, che sono invece ben presenti tra i consumatori stranieri. Quindi, o si va con i grandi numeri o con prezzi ragionevoli, altrimenti non si riesce a vendere”.
“L’importante mercato del vino trentino negli Stati Uniti - spiega ancora il professore Scienza - è in mano sia a Cavit che a Mezzacorona (rispettivamente 4.500 e 1.500 associati, ndr), che hanno anche grandi rivenditori, ma sono disponibili ad occupare piccole nicchie nel mercato. Per questo piccoli produttori e grande cooperazione dovrebbero operare in modo sinergico. I piccoli dovrebbero, tutti insieme, distribuire le proprie bottiglie, tra le 500.000 e 1 milione, su questi rivenditori che vendono all’estero grandi masse di vino, 15-20 milioni di bottiglie, in modo tale da creare un mercato parallelo, di nicchia, di chi fa prodotti particolari che rappresentano l’altra faccia del Trentino. Ne trarrebbero vantaggio sia i grandi, che così avrebbero a disposizione anche prodotti diversi, ma anche i piccoli che sopravvivrebbero e manterrebbero la tradizione, messa sempre più a rischio dall’affermarsi del gusto internazionale”.
Una sinergia auspicabile, dunque, che deve vedere protagoniste le due facce di una viticoltura, quella trentina che, negli ultimi 50 anni, soprattuto grazie a quel modello di cooperazione vinicola, che è il fiore all’occhiello della cooperazione italiana in generale, ha raggiunto livelli qualitativi eccellenti.
“Se non ci fosse stata la cooperazione - continua Scienza - in Trentino, forse la viticoltura sarebbe scomparsa. Sarebbero rimaste quelle poche aziende grandi, di qualche decina di ettari, perché le altre, di un ettaro in media, sarebbero state troppo piccole per sopravvivere. Quello che però ha contraddistinto la cooperazione in Trentino dalle altre, è il fatto di aver sempre pensato alla qualità, anche su suggerimento dei padri fondatori, e di vedere nel vino in bottiglia la via per il salto di qualità. Senza questa scelta, fatta negli anni Sessanta, non saremmo agli alti livelli di oggi: il Trentino ha una viticoltura e un’enologia invidiabili, con redditi che non ha nessuna altra regione italiana. Si paga l’uva da 100 a 400 euro a quintale, e penso che non ci sia nessuna viticultura in Italia, ma poche anche all’estero, che possa dare questi redditi”.
“50 anni: l’uomo, la vite, il vino”… Il convegno di Trento ha detto anche …
“Conservare, custodire, esaltare le tradizioni del vino trentino”: così il novantenne Ferdinando Tonon, unico fondatore vivente della prima Confraternita della Vite e del Vino, nata a Trento, nel convegno “50 anni: l’uomo, la vite, il vino”.
Il sociologo Nadio Delai, ex direttore del Censis, ha ricordato come “il vino negli ultimi 50 anni, nelle diverse stagioni, si sia trasformato da alimento a bene simbolo, seguendo l’evoluzione della nostra società, diventata immateriale e simbolica”.
“Nettare benefico per il saggio, bevanda sacrilega per chi ne fa abuso”: di questa ambivalenza del vino ha parlato il professor Roberto Mazzer, nutrizionista e docente di igiene alimentare all’Università di Udine, che ha evidenziato come “in ambito sanitario negli ultimi 50 anni vi siano, accanto ai detrattori totali del vino, molti che ne ammettono la valenza. Certo è che il vino, specie il rosso, assunto in piccola quantità e con regolarità, contiene sostanze che riducono il rischio di malattie cardiovascolari ed in certi casi è capace di combattere i virus, fanno testo le indagini epidemiologiche francesi”.
Ma “vino” significa storia e tradizioni con radici lontane nel tempo. L’antropologa Emanuela Renzetti (Università di Trento) ha evidenziato questo aspetto, m”ettendo in luce i cambiamenti della vita contadina; oggi l’agricoltore si occupa solo di alcuni prodotti, quelli per i quali i suoi terreni sono vocati”. Dei simbolismi del vino ha, invece, parlato Giovanni Kezich, direttore del Museo degli usi e costumi di San Michele all’Adige.
Negli ultimi 50 anni di storia del vino del Trentino un ruolo fondamentale l’ha avuto l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, fucina di talentuosi e geniali vignaioli e luogo di ricerca e sperimentazione: ne ha parlato l’enologo e professor Francesco Spagnolli, per anni preside: “l’evoluzione dell’intero sistema vitivinicolo locale, nazionale e mondiale, ha richiesto radicali mutamenti nella preparazione di tecnici del settore e l’Istituto Agrario si è occupato di far crescere prima la figura del tecnico agricolo e poi quella dell’enologo”.
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