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IL VINO DI DOMANI

Il futuro del vino si “tinge” di bianco: meglio se autoctono, biologico e longevo come il Verdicchio

Volano i bianchi fermi italiani all’estero: i trend analizzati da Denis Pantini, Ian D’Agata, Ampelio Bucci, Michele Bernetti e Alberto Mazzoni
ALBERTO MAZZONI, AMPELIO BUCCI, AUTOCTONI, BIANCHI, BIOLOGICO, DENIS PANTINI, IAN D'AGATA, LONGEVI, MICHELE BERNETTI, VWERDICCHIO, WINE MONITOR, Italia
Ian D’Agata e Alberto Mazzoni

Il futuro del vino italiano all’estero si “tinge” di bianco: lo dicono i dati, e lo conferma, nella cornice di “Collisioni Jesi”, capitale del Verdicchio nei 50 anni della Doc, Denis Pantini, responsabile di Nomisma - Wine Monitor, che a WineNews ha ricordato come il vino bianco fermo tricolore “in Italia si beve ormai come il rosso, con le esportazioni che sono cresciute del 26% negli ultimi 5 anni, tanto che oggi l’Italia è il primo esportatore al mondo della categoria”. Merito non solo di varietà popolari come il Pinot Grigio, ma anche di vitigni autoctoni e territori emergenti. “A partire proprio dal Verdicchio, ma l’Italia ha tanti territori che possono affermarsi: l’Etna, le Marche del Sud, l’Abruzzo, il Lugana. Con una distinzione: il trend degli autoctoni riguarda essenzialmente quei Paesi che hanno una certa cultura del vino, nei mercati nuovi invece bisogna entrare con territori e vitigni conosciuti, in molti casi con gli internazionali. Ci sono mercati, come gli Usa, in cui l’autoctono è una leva competitiva (per il 22% dei wine lovers sarà uno de trend del futuro, come rivela la ricerca di Wine Monitor, ndr), ed altri in cui conta più il brand Italia del territorio”.
E se i vitigni autoctoni saranno una tendenza su cui puntare, comunicarli nel modo giusto è la vera sfida che ci aspetta da qui ai prossimi anni. “Gli autoctoni possono avere un grande successo, pensiamo al Prosecco, che nasce dalla Glera - spiega Ian D’Agata, alla guida della Vinitaly International ed a capo del Progetto Vino di Collisioni – ma ci vuole del tempo: fino al 2000 nessuno parlava di Nerello Mascalese o Pecorino, li stiamo riscoprendo oggi. Vendere un vino prodotto da Cabernet Sauvignon o Chardonnay è molto più facile, gli autoctoni devono farsi conoscere, con un lavoro di fondo che va fatto da zero, perché all’estero ancora non hanno potuto rendersi conto di quanto siano buoni. In questo senso - continua D’Agata - più che di zonazione, sarebbe meglio parlare di valorizzazione territoriale, che può essere fatta in molti modi, ad esempio per via geologica, o per comuni. L’idea dell’impronta territoriale è quella di creare valore aggiunto per il vino. L’esempio è quello della Borgogna, una “forchetta” che va da 5 a 1.000 euro: la denominazione non deve essere una scusa dietro la quale nascondere produzioni di scarsa qualità. Il Verdicchio in questo senso ha tante armi: prima di tutto è un vitigno che dà un vino riconoscibile da tutti gli altri. Poi dà riconoscibilità al terroir: a Cupramontana è molto più acido e minerale di uno che nasce in riva al mare. Terzo aspetto, è un vitigno che dà vini molto longevi, come i più grandi bianchi al mondo, per cui stiamo parlando di un vino importante”.
E qui si apre un ulteriore scenario, perché autoctono è bello, se biologico è ancora meglio, e se ci aggiungiamo un altro aspetto, quello della longevità, ecco che il Verdicchio si scopre davvero come il vino del futuro, come racconta, ancora a WineNews, Ampelio Bucci, tra i viticoltori storici delle Marche. “In un territorio come il nostro - spiega Ampelio Bucci - la scelta migliore è piantare le vigne sulla zona in cui il calcare, che dà mineralità, qualità e sanità al vino, poggia sulla creta, che raccoglie l’acqua che viene cercata in profondità dalle vigne più vecchie, che danni i vini più longevi. Nelle vigne che hanno 65 anni, la resa è di 40 quintali ad ettaro, e del resto non sarebbero in grado di dare di più, nelle altre tra i 70 e i 100 massimo. Autoctono, biologico e longevo: ecco - continua il vigneron - la formula per il successo del Verdicchio. È importante capire che la bottiglia dell’annata in commercio, lasciata qualche anno in cantina, la ritroviamo ancora più buona. Il Verdicchio è un vitigno “importante”, come l’ha definito Ian D’Agata, ed in quanto tale non può avere una resa massima per ettaro di 140 quintali, come i vini più popolari, ma seguire l’esempio delle denominazioni di livello, ed attestarci a 100 quintali per ettaro, altrimenti non si è credibili, specie se si vuole lavorare seriamente sulla crescita del prezzo medio”.
A proposito di territorio, se comunicare le peculiarità di un vitigno autoctono è fondamentale, dimenticarsi di narrare ciò che lo circonda sarebbe a dir poco criminale. “Comunicare il Verdicchio - riprende Bucci - vuol dire comunicare un territorio che comprende anche Urbino, da dove nasce la nostra cultura condivisa e la storia dei paesi circondati da cinta murarie, volute ad Urbino e dintorni, nel Trecento, dal Cardinale Egidio d’Albornoz. Per vendere ciò che fai, lo devi conoscere a fondo
, dobbiamo uscire dalla comunicazione nozionistica ormai nota a tutti, quella delle pressature soffici e della selezione delle uve, e andare a parlare del territorio che ci circonda”. Non che sia facile, perché come ricorda Michele Bernetti, a capo della galassia Umani Ronchi, che proprio nelle Marche ha il suo cuore pulsante, “la nostra è una Regione piccola e malgrado le tante cose belle, il numero dei turisti è ancora ridotto, meno del 2% del turismo straniero in Italia passa di qui. Quando vengono, però, trovano bellezze naturalistiche, paesaggistiche ed artistiche uniche, da Urbino ad Ascoli”. Da lontano, però, è difficile farle conoscere, ed in questo senso, commercialmente e quindi economicamente, va decisamente meglio al Verdicchio che, per certi aspetti, “è più conosciuto all’estero che in Italia: è una presenza solida, ma non trainante né di moda. Dà stabilità ed è presente in ogni mercato. Va sottolineato che per i vini bianchi è importante non entrare dal basso nel mercato, ma dall’altro, per risolvere una precarietà che è il prezzo troppo basso rispetto ai rossi. Specie se si possono vantare valori aggiunti come la longevità, la coltivazione biologica e l’uso di un vitigno autoctono, tendenza che va per la maggiore in molti mercati”.
Insomma, il primo mezzo secolo del Verdicchio, come ogni storia, lascia dietro di sé tante conquiste, ma anche possibilità di crescita enormi. “I 50 anni della Doc sono il punto di partenza per un nuovo percorso - commenta Alberto Mazzoni, direttore dell’Istituto Marchigiano Tutela Vini - che poggia su pilastri solidi, ossia le 18 milioni le bottiglie di Verdicchio dei Castelli di Jesi prodotte ogni anno (per la metà destinate all’export) ed un business complessivo di 50 milioni di euro, ma che ora deve incanalarsi su tre binari importanti, che ci aiutino ad identificare al meglio il Verdicchio sul mercato: scommettiamo sul biologico, non è una moda ma uno stile di vita, investiamo sul terroir, mappando le zone di un’area di oltre 2.000 ettari perché ogni produttore possa raccontare il suo stile, e poi dobbiamo lavorare sul brand, mettendo a sistema cultura, turismo, cibo, vino ed i Castelli di Jesi. Il Verdicchio è il vino bianco che meglio riesce ad emergere grazie ad una longevità che lo rende unico, ed è su questo che vogliamo investire: con un vino tanto duttile - conclude Mazzoni - potremmo coprire più fasce di mercato ed avvicinare i consumatori più giovani”.

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