Le previsioni sul futuro demografico in Italia di Istat raccontano di un Paese in cui nel 2050 vivranno appena 54,1 milioni di persone (dai 59,6 milioni del 2020), con un rapporto tra giovani e anziani di 1 a 3, che si traduce in una percentuale di popolazione in età lavorativa che scenderà dal 63,8% al 53,3% del totale. Una vera e propria crisi demografica, quella che si prospetta, che non sorprende perché arriva da lontano, e che non riguarda solo l’Italia, ma praticamente tutto il mondo occidentale. Si vive più a lungo, e questo vuol dire che i ritmi di vita sono destinati a cambiare in maniera rapida e radicale: si alza l’età pensionabile, mutano i consumi, la tecnologia ha un ruolo sempre più centrale, e lo schema a cui siamo abituati, di una vita divisa in tre fasi (istruzione-lavoro-pensione) scricchiola, come racconta lo studio “The 100 Year Life”, firmato nel 2016 da Linda Grattan e Andrew Scott della London Business School, che immagina un futuro diverso, flessibile ai bisogni dell’individuo e alle esigenze della società.
E il vino, si chiederà il lettore, cosa c’entra? Molto. Anzi, moltissimo, perché come raccontano i dati di Wine Intelligence in questi due anni di pandemia sono stati i più giovani (21-34 anni), abituati a bere vino principalmente fuori casa, a segnare il calo maggiore dei consumi. Una tendenza evidenziata soprattutto in mercati storici, come quelli di Usa e Gran Bretagna, dove ci vorrà del tempo per tornare alla situazione pre-Covid, ammesso che sia possibile ristabilire le stesse abitudini. Nel frattempo, il presente del commercio enoico continua ad essere legato ai Baby Boomers, la generazione che ha sdoganato il vino di qualità, le cui potenzialità di spesa, però, hanno ormai superato lo zenit. È necessario, quindi, conquistare i più giovani, la cui disaffezione in realtà arriva da lontano, da ben prima che il mondo venisse investito dalla pandemia di Covid-19. Tra il 2010 ed il 2020, ad esempio, in Gran Bretagna i consumatori tra i 18 ed i 34 anni che consumano vino almeno una volta al mese sono passati dal 50% al 26%, in Usa, nello stesso periodo (ma tra i consumatori che hanno 21-34 anni) la percentuale è crollata dal 36% al 21%.
Nulla è perduto, perché lo spazio per tornare a crescere c’è, ma il problema esiste, e il mondo del vino lo sa benissimo. La svolta nella direzione della sostenibilità ambientale, così come la produzione di vini sempre meno alcolici, va proprio in questa direzione. D’altro canto, il restringimento della platea dei consumatori più giovani, come suggerisce ancora l’analisi di Wine Intelligence, non è necessariamente un aspetto negativo. Chi, tra i più giovani, sceglie il vino invece che la birra, gli spirits, o gli hard seltzer (ready-to-drink), ha spesso capacità di spesa importanti, ed è disposto ad investire cifre mediamente alte per una bottiglia di vino. Il futuro, quindi, è comunque in buone mani, anche perché i mercati più maturi la via della premiumizzazione l’hanno imboccata da un po’. Le incognite restano ancora tutte lì, e il modo in cui la società e l’economia sapranno riequilibrarsi rispetto ad un mondo sempre più vecchio sarò fondamentale per disegnare il domani di tutti i consumi, compresi quelli di vino, ancorati alla generazione di chi sta ormai andando in pensione, e alle prese con un passaggio tutt’altro che semplice.
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