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Italia Oggi

Inghilterra confusa: what’s docg ... L’etichetta di qualità sui vini italiani disorienta i consumatori Uk... “Il percorso delle denominazioni deve essere rivisitato. Troppi marchi creano confusione, soprattutto all’estero, dobbiamo rivedere Doc e Igt e arrivare a un marchio collettivo per il made in Italy”. Era stato Federico Vecchioni, presidente di Confagricoltura, qualche mese fa durante un incontro al Castello di Brolio (Si) per parlare del barone Bettino Ricasoli, ad anticipare quello che in questi giorni è emerso da una ricerca delle Città del vino. Secondo l’indagine sul mercato inglese, i consumatori anglosassoni sono confusi dalla classificazione dei nostri vini e solo il 3% di essi acquista vino di qualità. Dallo studio “Analisi delle strategie, performance e prospettive di Brunello di Montalcino, Vernaccia di San Gimignano e Vino Nobile di Montepulciano”, curato da Manuela Gabbai (Città del vino) e Benedetto Rocchi (Università di Firenze), emerge che le certificazioni Docg non rappresentano uno strumento di guida per i consumatori, in quanto certificano principalmente l’origine e il metodo produttivo. Di più: il sistema delle docg italiane risulta
incomprensibile per il consumatore Uk, anche a causa delle diverse fasce di prezzo, sinonimo di differente qualità. Un dato in linea con Confagricoltura, per la quale “la denominazione da sola non può essere sufficiente, è necessario avere un sistema che faccia riferimento al territorio e che deve avere un contorno di promozione. Le denominazioni sono sicuramente valide ma vanno appoggiate e valorizzate con una adeguata comunicazione e promozione. Un bollino è veicolo in più se comunicato bene, se la comunicazione è forte unitaria ed efficiente. Quindi occorre fare sistema, come ci
insegnano i francesi”. Per tornare alla ricerca, nel mercato britannico, che conta 33,3 milioni di consumatori di vino, le tre Docg oggetto di studio sono vendute principalmente attraverso il canale Horeca, ma hanno una scarsa presenza e visibilità nel canale retail, controllato al 70% dai supermercati. Proprio la grande distribuzione assorbe il
45,6% del volume totale di vino venduto in Uk. Riccardo Ricci Curbastro, presidente dei Federdoc e produttore di vino in Franciacorta, tiene a mettere dei paletti. “Non credo alle ricerche di mercato fatte estrapolando il contesto. Forse avremmo lo stesso risultato in Texas, ma a New York, dove il consumatore è più preparato, il risultato sarebbe diverso”. “Il futuro del mercato”, continua, “si chiama vino a denominazione. È vero che il mondo anglosassone è abituatoal vino varietale, ma la tendenza cambia. Basti pensare alla California che vuol riconoscere la zona di produzione di Napa Valley. O i neozelandesi che usano la denominazione Marlborough per distinguere il Sauvignon Blanc e gli australiani, che hanno sempre camuffato i loro vini con le nostre
denominazioni, hanno presentato a Bruxelles la richiesta di riconoscimento dei vini della Barossa Valley”. Secondo Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, “sui mercati anglofoni è più importante il brand che non il marchio. L’inchiesta conferma quello che noi avevamo sempre pensato, ovvero che le denominazioni non sono ben conosciute”. “Quello che servirebbe sarebbe una maggiore informazione”. Infine Giuseppe Liberatore, presidente dell’associazione italiana Consorzi indicazioni geografiche, Aicig: “La denominazione è il vero valore di un prodotto, non ci sono marchi e brand che valgano altrettanto”.

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