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Italia Oggi

Gli investimenti esteri farebbero bene al vino italiano ... Nella Vecchia Europa l’industria vitivinicola è da sempre “monopolisticamente” nazionale, nel senso che sono investitori e capitali domestici che la controllano e la possiedono. La filiera del vino, insomma, è integrata: dalle azioni alle bottiglie finali tutto o quasi è made in Italy. Si tratta di una monocoltura capitalistica che non è per niente detto che favorisca il miglioramento competitivo del comparto, oggi veramente esposto alla concorrenza internazionale, o le politiche innovative. Come in biologia anche in economia i gruppi di imprese eccessivamente omogenei o troppo chiusi ai contatti con l’esterno rischiano di essere meno capaci di sopravvivere nella fasi difficili o di sviluppare meccanismi originali di evoluzione della specie. Il vero rischio, insomma, è che il monopolio indigeno nel capitale enologico italiano finisca per tradursi in una decrescente ma costante perdita di competitività internazionale della produzione. Fatto sicuramente grave anche perché nel nuovo mondo vinicolo gli investimenti internazionali non mancano e hanno già prodotto effetti positivi. Una recente ricerca di Martin Kunc e Tomas G. Bas sul mercato cileno, “Innovation in the Chilean Wine Industry: the Impact of Foreign Direct Investments and Entrepreneurship on Competitiveness”, ha misurato gli effetti positivi degli investimenti esteri nell’industria del vino locale. All’inizio degli anni 80, prima che iniziasse la fase analizzata, l’industria vitivinicola cilena era arretrata e poco competitiva e schiacciata nelle produzioni di fascia bassa in termini di prezzo medio per bottiglia. L’arrivo di capitali esteri ha prodotto diversi fenomeni positivi nel corso dei successivi 15 anni e contribuito al conseguimento dell’attuale competitività delle bottiglie cilene sugli scaffali internazionali. Grazie agli investitori internazionali il vino cileno ha adottato tecniche di produzione avanzate, si è concentrato sulle produzioni e le commercializzazioni di vini premium e superpremium e ha assorbito capitale umano e conoscenza specialistica che difficilmente si sarebbe formata con la stessa quantità e rapidità a livello domestico. Il vino cileno è oggi competitivo nei canali commerciali internazionali e gode di un brand globale positivo anche grazie al lavoro svolto negli ultimi due decenni dagli investitori internazionali nell’industria locale. Non sarebbe, perciò, negativo se una percentuale un minimo significativa dell’industria vinicola italiana fosse acquistata da produttori o da fondi di investimento internazionali. Tecniche commerciali e di marketing diverse e anche il desiderio di estrarre una più elevata redditività dal capitale investito favorirebbero una maggiore innovazione complessiva del settore. Innovazione a 360 gradi oggi necessaria più del passato per guadagnare quote di mercato all’estero: strategia indispensabile vista la progressiva contrazione dei consumi domestici. Il mercato proprietario del vino italiano è forse troppo domestico, mentre una sana competizione tra capitali non dello stesso paese sarebbe sana per stimolare politiche e strategie meno tradizionali e più orientate a creare valore seguendo strade non battute. Nel caso del vino il cosiddetto effetto Wimbledon potrebbe essere davvero positivo per svecchiare la mentalità “provinciale” di un capitale che troppo spesso si accontenta ancora di rendimenti da “sopravvivenza”.

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