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Italia Oggi

La patrimoniale di Amato mette a rischio il made in Italy enologico ... Con il suo debito pubblico pari al 118% del pil l’Italia resta il paese più esposto dell’Eurozona. Nonostante gli sforzi fatti in termini di privatizzazioni e di politiche di contenimento della spesa non è mai riuscita, negli anni, a ridurre il rapporto al di sotto del 100%. In questo modo ha continuato e continua a pagare un ammontare, circa 80 miliardi annui, di interessi sullo stock di debito che impediscono di utilizzare parte di quelle risorse per favorire la crescita economica. Se l’Italia cresce da tempo meno della media europea parte della spiegazione va ricercata nella scarsa produttività, ma parte delle ragioni del minore sviluppo sono anche connesse con gli oneri del debito pubblico. Dopo un periodo di relativo silenzio intellettuale è calata nel dibattito politico-economico una proposta finalizzata ad abbattere drasticamente il debito dello stato. Giuliano Amato, che da premier varò l’unica imposta patrimoniale italiana sui depositi bancari e strumenti analoghi, ha di recente rilanciato la sua
idea su larga scala. Secondo l’ex politico socialista un’imposta patrimoniale sarebbe oggi utile per
ridurre sensibilmente lo stock di debito pubblico per portarlo ben al di sotto della soglia del 100%
rispetto al pil e liberare così molti miliardi di euro come risorse annue per gli investimenti, mentre
oggi vengono pagati come interessi sui titoli di stato. Si tratterebbe di una imposta una tantum,
di una maxientrata fiscale dalla base imponibile ampia perché applicata sulle varie tipologie di patrimonio possedute: immobili, depositi, titoli, preziosi ecc. Probabilmente, la prudenza è d’obbligo visto che tranne quanto contenuto in un articolo di giornale dei dettagli tecnici della proposta non si sa quasi nulla, la patrimoniale di Amato colpirebbe anche i patrimoni, sotto forma di
terreni posseduti, delle imprese vitivinicole. Sicuramente ne dovrebbero essere esclusi i terreni
cosiddetti strumentali, cioè quelli legati alla coltivazione delle uve per la produzione, altrimenti si
tratterebbe di un’imposta una tantum sul valore aggiunto delle imprese del settore. Ma terreni e
immobili non strumentali, e le imprese vitivinicole ne possiedono solitamente diversi, verrebbero
colpiti dalla patrimoniale. Significa che l’imposta drenerebbe liquidità a un settore con problemi già
molto peculiari sul lato finanziario, perché produce un prodotto con un circolante molto lungo, per
taluni rossi il periodo è pluriennale, e deve “bloccare” molto capitale in terreni per completare la filiera produttiva. Le imprese vitivinicole integrate end-to-end sarebbero davvero penalizzate da una
imposta patrimoniale, perché si ritroverebbero a dover pagare, a fronte di proprietà che solitamente
hanno una rendita irrisoria e che sono possedute per ragioni diverse dal bisogno produttivo più
stretto (spesso anche offrendo una risposta indiretta alla tutela ambientale e paesaggistica delle
zone rurali), un’imposta magari indebitandosi. La fragilità finanziaria del comparto vitivinicolo,
aggravata dalla recente crisi, suggerisce di evitare interventi una tantum che potrebbero concreta-
mente tradursi in crisi di imprese nel settore enologico. Sarebbe un colpo al made in Italy del vino
che ha la disperata necessità cli investire tutte le risorse di cui dispone in mirate marketing internazionale per promuovere i suoi vini nei mercati emergenti, dove i consumi non ristagnano come nella vecchia Europa.

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