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Italia Oggi

Il vino Campari trascina la crescita ... Nel settore delle bevande esiste un peculiare esempio di impresa conglomerale. Si tratta dei gruppi che il portafoglio dei propri marchi ed investimenti in maniera trasversale tra i diversi prodotti alcolici o non. La conglomeralità in questo caso è legata
alla gestione dei vari brand che si rivolgono a segmenti di consumatori con sensibilità distinte: taluni preferiscono vodka altri vino bianco; ad alcuni piace l’aperitivo analcolico ad altri le bollicine. La globalizzazione dei consumi, negli ultimi anni, nei settore del beverage ha favorito la crescita dei portafogli diversificati, perché in questo modo presidiano le diversità di consumo locale, si provano a sviluppare le migliori economie di scopo possibili e si punta a diversificare il rischio di business spalmandolo tra gli andamenti dei molti cicli economici. Non c’è un solo unico mercato del beverage, ma una somma di tante micro realtà di consumo mondiali. In questo contesto
la diversificazione nel settore del vino non avevano quasi mai offerto grandi soddisfazioni alle imprese dei comparto. L’acquisto e la gestione integrata di etichette vinicole era stata, solitamente, di minor soddisfazione, sul piano del rendimento del capitale investito, di analoghi investimenti ne-
gli aperitivi o nei superalcolici. La possibile spiegazione di tale sotto performance da gestione di portafoglio è stata soprattutto ricercata nelle molte peculiarità che caratterizzano il bene economico vino. L’effetto terroir si affievolirebbe, secondo taluni esperti, quando una etichetta entra a far parte di un grande gruppo industriale, oppure per il fatto che il consumatore percepirebbe la proprietà di una grande impresa diversificata come la manifestazione più palese di una tendenza alla massificazione della commercializzazione del vino. Dietro queste possi bili spiegazioni si cela una sorta di percezione sacrale del bene vino: un prodotto così unico da poter essere commercializzato al meglio soltanto da imprese specializzate che utilizzano canali non tradizionali di vendita oppure che posizionano nella grande distribuzione non come delle grappe o degli aperitivi. La strategia più recente della principale impresa italiana del settore, la Campari, inizia a smontare la tesi precedente che, peraltro, ha un fondamento economico non provabile. Il vino è un bene alcolico come gli altri e
può beneficiare di politiche di produzione e di marketing integrate messe in campo da un gruppo specializzato conglomerale. E ne può beneficiare soprattutto nel mercato globale contemporaneo, nel quale aziende come la Campari possono perfino pensare di avere in portafoglio una gamma di etichette che copre l’intero pianeta, così da soddisfare ogni potenziale bisogno del consumatore. Varie etichette di Pinot nero, per esempio, prodotte dalla Nuova Zelanda all’Oregon, dalla Francia all’Alto Adige così da formare un’offerta unica per i possibili canali di vendita diretta o indiretta, via ristoranti o enoteche. Una offerta unica che soltanto chi dispone di ingenti capitali da investire, Campari ha dichiarato di avere ben 500 milioni di euro pronti per acquisizioni , può pensare di implementare. Non deve più sorprendere, perci4 il fatto che durante il primo trimestre del 2011 proprio le vendite di vino hanno trascinato al rialzo la trimestrale della società. Registrando una crescita nel fatturato di periodo del 32,7%, le etichette del gruppo italiano segnalano inequivocabilmente come la strategia del gruppo stia iniziando a dare i frutti attesi. E se il capitale investito nel vino rende meglio degli altri prodotti del portafoglio, allora diventa razionale per chi gestisce un gruppo del beverage pensare a rafforzare, anche tramite acquisizioni, la propria offerta specifica.

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