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Italia Oggi

Super vitigni per le zone umide ... Ideali per le coltivazioni biologiche sono poco diffusi in Europa. E l’Italia è il fanalino di coda... I Piwi, frutto di incroci, non subiscono malattie fungine... I vitigni Piwi, ossia tolleranti all’oidio e alla peronospora, riscuotono un forte interesse in vitivinicoltura. E non va trascurato il loro potenziale per la produzione d’uva da tavola, dove ciò che conta sono il gusto e l’aspetto dell’uva, non il prestigio del vitigno da cui sono ottenuti. La diffusione in Europa di viti Piwi non raggiunge ancora 11% dell’impiantato. In Italia, dove fino agli anni Settanta del secolo scorso fare incroci fra vitis vinifera e viti americane o asiatiche resistenti era vietato, la ricerca è partita in ritardo rispetto al Nord e Centro Europa e, nonostante nel registro nazionale italiano siano già stati registrati da alcuni anni sei vitigni Piwi frutto della ricerca di centri europei, fra questi quelli dell’Istituto statale per la viticoltura di Friburgo, e altri dieci (cinque a bacca rossa e altrettanti a bacca bianca) dell’Istituto di genomica applicata dell’università di Udine, le viti Piwi sono già coltivabili solo in provincia di Bolzano (che li ha autorizzati ancor prima dell’iscrizione nel registro nazionale), in Friuli Venezia Giulia e in Veneto. A marzo scorso stando ad Alexander Morandell, contitolare di Wineplant, fra i primi vivai in Italia a commercializzare barbatelle di viti Piwi, nonostante il progressivo aumento dell’innestato, la domanda, soprattutto di barbatelle a bacca bianca, ha superato l’offerta. “Molto probabilmente”, dichiara a ItaliaOggi Morandell, “le viti Piwi non sostituiranno i vitigni tradizionali, ma semplicemente li affiancheranno. Le considero la soluzione ottimale, direi addirittura imprescindibile, per chi vuole produrre vini realmente biologici e per chi vuol fare della viticoltura sostenibile, a maggior ragione se conduce vigneti in prossimità di centri abitati o di coltivazioni biologiche o in appezzamenti in forte pendenza, da viticoltura eroica per intenderci. Per far sì che i vitigni Piwi s’affermino, anche per la produzione di vini rossi, sarà fondamentale coinvolgere le grandi aziende vitivinicole che hanno sia know - how agronomico e di vinificazione sia mercato, ovvero capacità di valorizzare commercialmente vini ottenuto da vitigni innovativi che quindi possono al massimo fregiarsi del’Igp, non della Dop”. “Occorre ancora fare esperienza nella coltivazione e nella vinificazione di vitigni Piwi”, ammette Hanno Mayr, membro del comitato direttivo dell’associazione Piwi International e Piwi Südtirol, “e lavorare per farle conoscere. Io stesso, nel maso di famiglia, ho testato tre cultivar Piwi: souvignier gris, bronner e solaris. E penso che abbandonerò la solaris perché mi dà problemi di gestione: matura già a metà agosto e mi costringerebbe a vendemmiare in un momento in cui sono impegnato in altre lavorazioni. Chi come me conferisce l’uva a una cantina sociale, poi, non può decidere autonomamente che vitigni coltivare. Già oggi, comunque, da queste nuove cultivar che presentano tre indubbi plus dal punto di vista ecologico, economico e di salute, s’ottengono vini di qualità, che raggiungono ottimi piazzamenti in concorsi internazionali”. Anche la scienza promuove i vitigni Piwi. “Oggi” ”, dichiara Riccardo Velasco, coordinatore del Dipartimento genomica e biologia delle piante da frutto della Fondazione Edmund Mach - Iasma, “sono la migliore risposta alla richiesta della società civile d’un sempre minor ricorso alla chimica di sintesi in viticoltura. E anche dal punto di vista della qualità del vino che se ne potrà ottenere, il futuro porterà ulteriori miglioramenti, perchè le nuove generazioni dell’incrocio originario fra vitis vinifera e viti americane o asiatiche non da vino naturalmente resistenti a oidio e peronospora, avranno un corredo genetico costituito al 98 - 99% da Dna di vitis vinifera. Oggi i vitigni Piwi e anche quelli dell’università di Udine sono alla quinta - sesta generazione. Noi stessi stiamo lavorando su cultivar di vitis vinifera resistenti, che intendiamo ancora migliorare e non abbiamo quindi ancora registrato”. Le nuove tecniche di miglioramento genetico, per esempio, il genome editing, rischiano di rendere obsoleto il lavoro d’incrocio polline su fiore e quindi anche la ricerca di vitigni Piwi nuovi e/o migliori? “A prescindere dal fatto che il genome editing non è ancora normato in Europa e in Italia e che l’Oiv non s’è ancora pronunciato su come potremo chiamare eventuali vitigni resi resistenti con questa tecnica”, spiega Velasco, “i due metodi di selezione varietale non si escludono l’un l’altro perché portano a risultati differenti. L’incrocio tradizionale polline - fiore attraverso cui si stanno ottenendo le viti Piwi dà origine a vitigni nuovi, prima non esistenti in natura, in grado di produrre già oggi vini di buona qualità, migliorabili in futuro. Il genome editing, invece, dovrebbe consentirci d’ottenere doni resistenti alle malattie di vitigni tradizionali non naturalmente resistenti. In altre colture come mais, riso, pomodoro, cultivar migliorate col genome editing sono già disponibili. In viticoltura ancora no. I primi prototipi potranno aversi fra 2-3 anni, per arrivare all’iscrizione nel registro nazionale dei vitigni nell’arco d’un decennio. Bisognerà verificare, però, se realmente daranno vini di qualità pari o superiore a quella dei loro genitori non geneticamente editati”.

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