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Italiaoggi

Quotare il vino in borsa per affrontare le sfide globali ... Per scelte che risalgono ai tempi della Costituente, in Italia alla borsa è sempre stato preferito il canale bancario, anche tramite gli istituti di credito speciale, per finanziare le imprese. La nostra era un’economia dirigista che vedeva con preoccupazione il libero mercato e la personale iniziativa dell’imprenditore. Così si spiega perché la Borsa sia rimasta asfittica e sottocapitalizzata nei lunghi decenni del secondo dopoguerra. E non hanno sicuramente aiutato ad avvicinare i piccoli investitori alla borsa le esperienze truffaldine subite dai risparmiatori per mano di furfanti, come nel caso della Parmalat di Callisto Tanzi. In questo quadro un settore già difficile da portare in borsa, per sue specificità, come quello vitivinicolo non poteva che restare penalizzato. Così non deve sorprendere se oggi nessuna azienda del vino ha le proprie azioni quotate e scambiabili a Piazza Affari. Ma è un’assenza davvero poco comprensibile in pieno ventunesimo secolo ed in un comparto che avrebbe bisogno di raccogliere capitali per -consolidarsi, anche a livello transfrontaliero. Certo le società del vino quotato sono poche anche negli Usa, in Francia, in Spagna, in Cile o in Australia, ma in nessun grande paese dell’enologia mondiale si registra il numero zero come in Italia. Un eccesso di proprietà familiare - che favorisce l’accontentarsi del solito “dividendo” - una ridotta ambizione ad implementare strategie globali e una qualità manageriale media insoddisfacente possono spiegare l’assenza del vino italico in borsa. Ma nel mondo globale di oggi questa ritrosia al capitale di rischio può favorire la marginalizzazione del comparto. Non si vive solo di agriturismo, un paese deve sapere esprimere anche grandi catene alberghiere nel business internazionale di oggi come, ad esempio, Sheraton, NH e Novotel. E che il business, anche quello vinicolo, sia oggi globalizzato lo certifica anche l’ultima grande acquisizione del settore che ha interessato il marchio storico della Gancia. Il nuovo patron delle bollicine piemontesi Gancia, è il magnate russo della vodka Rustam Tariko, un personaggio molto più italiano di quanto non si pensi. A Torino ha fatto tutti i suoi studi universitari, in ingegneria al Politecnico, ed in Italia, mentre studiava, ha mosso i suoi primi passi da imprenditore. Rientrato in patria, sfruttando anche il vantaggio competitivo che gli derivava dall’aver fatto ottimi studi all’estero e avendo sperimentato sul campo le regole del gioco capitalistico, si è dato al business diventando in pochi lustri uno degli uomini più ricchi della Federazione russa. Si tratta di una storia nella quale il made in Italy agisce bidirezionalmente: da un lato c’è un made in Italy nella formazione del capitale umano di qualità che ancora esiste; dall’altro emerge l’interesse verso il made in Italy, per poterlo sfruttare globalmente, da parte degli uomini di affari internazionali figli del nuovo mercato senza frontiere. La morale finale è molto semplice. La storia dell’ingegner Tariko mostra quanto globali già siano oggi relazioni e rapporti in ogni campo e quante opportunità mette a disposizione la globalizzazione a tutti coloro che decidono di viverla correttamente, cioè senza eccessivi timori e senza rimanere arroccati sulle certezze indifendibili del passato.

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