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L'APICOLTURA IN UN SUGGESTIVO RACCONTO DI CARLO CAMBI
DIRETTORE DE "I VIAGGI DI REPUBBLICA"

Miele
L'apicoltore Guido Franci

Noi come goffe marionette in quei buffi scafandri stavamo lì in fila davanti alle arnie. Basta un abito inconsueto a cambiare le prospettive intime ed esterne: la nostra prosopopea da homo tecnologicus, da homo mediaticus nulla valeva al cospetto dello svolgersi della natura, al cospetto di un minuto homo faber che porta dentro e con sé la sapienza infinita di chi lavora col creato. Perciò ci sentivamo timorosi e ammirati nello spiare, attraverso una rete, quel piccolo-grande universo che è una casa d'api. Il vecchio Franci* (scomparso di recente, ndr), un omino dal volto franco e dai modi misurati e gentili, armato solo dello sputafumo e di un'esperienza infinita sfilava i telaietti a uno a uno con lievi movenze di prestigiatore. Pareva parlare con le sue “operaie”, vezzeggiarle quasi, forse chiedendo intimamente perdono del quotidiano furto del loro lavoro. Come scolari qui a Montalcino tra un rincorrersi di vigne e uno sbuffo verdeargento d'olivi abbiamo appreso una lezione di vita. Indimenticabile, ché da allora il mondo delle api è diventata una dolce tentazione.

Si è portati a studiarlo, a interpretarlo, a carpirne ritmi e organizzazioni. Perciò il ritorno a Montalcino, dove a settembre si celebra il “rito” della settimana del miele, è diventata una felice coazione a ripetere. L'Asga e Siena Mostre sono ospiti coinvolgenti, ma ciò che spinge a tornare qua a discutere d'api, ad incontrare il popolo degli apicoltori - questi straordinari hobbisti, i pochi professionisti, i molti che integrano prima ancora che il reddito la passione per il lavoro della terra con le casette dei loro insetti - è l'infinita curiosità per il mondo delle api. Peccato, e lo dico forte e con una punta di rammarico, che sempre quando ci si accosta al movimento apistico ci sia un’insita marginalità: scarsa attenzione, ancora minor considerazione per un settore che, piaccia o meno, porta un fatturato agricolo aggiuntivo che gira attorno ai 100 miliardi (e pure la nostrana produzione non ci basta a soddisfare i consumi interni).

Con gli annuali ritorni a Montalcino, con le chiacchiere scambiate, con le visite qua e là dove si vedono arnie piazzate tra un castagneto, a ridosso d'un bosco, in un vallone dove l'acacia impera, o nelle assolate piane di Sicilia tra le zagare, il contagio della passione ha fatto posto alla consapevolezza dell'urgenza di dare più spazio al settore apistico, di rappresentarlo per ciò che è: un potente volano agricolo, un modello d’agricoltura di nicchia da sostenere, divulgare, imporre. Non c'è, infatti, il solo risvolto economico (pur importante) che ci fa dire come ormai l'azienda agricola abbia bisogno di cicli integrati e di diversificazioni per essere non solo redditizia ma completa (il solo vino ad esempio basta a fare il bilancio ma non basta a qualificare un'azienda), c'è anche l'aspetto divulgativo di un prodotto naturale di altissimo valore nutrizionale salutistico, e c'è la necessità di imporre un modello colturale-culturale qual è quello dell'uomo che parla alle api.

Viene, infatti, da pensare che noi nulla abbiamo inventato nelle nostre gerarchie produttive, nella nostra società. Certo in un alveare non c'è democrazia, ma l'ordine imposto finisce per diventare solidarietà. Solo una regina conosce lo sforzo di regnare e perpetuare la specie: una fatica forse dieci volte superiore a quella delle operaie che vanno per campi. Qualche maestro di città farebbe bene a dirottare per alveari i suoi ragazzi, la campagna vale più di un dotto seminario. Penso che forse tanti nostri bambini non sanno che sapore abbia il miele: eppure nelle loro merendine, nei loro biscotti, nei loro tanti (troppi?) rompifame ne mangiano ad etti. Ma noi siamo uno strano popolo: facciamo il miele migliore del mondo, ma non lo sappiamo, non lo conosciamo. Ci lambicchiamo di dietetici, ci imbottiamo di pastiglie senza sapere che da un alveare si cavano zuccheri di altissimo pregio e di minor caloria, e vitamine e miracolosi unguenti e farmaci naturali (la propoli, il veleno, la pappa reale, la cera perfino) che solo a pensarci verrebbe da chiedere la moltiplicazione infinita delle arnie.
Ci accontentiamo di un po' di pubblicità, di sbirciare dai banconi del supermercato e di sorprenderci se nei dolci di Natale si scopre che c'è una gran quantità di miele. Purtroppo quasi mai italiano, non sempre comunitario. E questo è gran caso di cui dopo converrà discutere. Il fatto è che noi per educazione ambientale e alimentare siamo al palo: provate a chiedere quanti conoscono come si fa il miele e di quante qualità ce ne siano. E quale sia il compito insostituibile (valutato in 5 mila miliardi, non spiccioli) che quelle operaie in tuta giallonera (non la trovate elegante?) svolgono dall'alba al tramonto impollinando frutteti, presidiando il territorio, infine producendo il loro dorato nettare. E provate a chiedere se qualcuno sa dirvi quanto bene faccia il miele se s'eccettua il rito influenzale del cucchiaio sciolto nel latte caldo per liberare i bronchi dal catarro. I francesi invece che un po' per cultura, certo per sciovinismo e business a questa educazione stanno attenti e da tempo fanno nelle scuole seminari dei sapori. Non c'è da stupirsi se il foie gras, il Camambert, o gli Chateaux siano impermeabili all'importazione di altri gusti. E la loro agricoltura regge, la loro industria alimentare avanza. Noi al massimo stiamo a discettar di diete, abbiamo mense dove si misurano le calorie, abbiamo sacrificato la cultura del gusto alla lotta all'obesità. Perdendo per strada un patrimonio di conoscenza, di sapienza e anche di soddisfazione di bisogni che è invece la solida base sulla quale può poggiare un'agricoltura orientata al benessere del consumatore e al prodotto di qualità.

Ecco: credo che il miele potrebbe essere il prodotto-laboratorio per sperimentare una nuova forma di comunicazione sullo straordinario patrimonio rappresentato dall'agricoltura. Sono, infatti, convinto che il movimento apistico debba uscire dalla marginalità. Certo conosco bene il fascino (ma anche la fatica) di spostarsi per chilometri e chilometri per portare al pascolo le api, conosco l'intimo sodalizio che lega l'uomo ai campi fioriti e quanto sia dolce la solitudine dell'apicoltore che vive in un universo piccolo e compiuto (il rapporto uomo-natura è, una volta instaurato, il più esclusivo e appagante) ma questo non è più tempo d’isolata continuità dei mestieri. Questo è il tempo della globalizzazione. Dunque, i problemi dell'apicoltura (anche e soprattutto come simbolo di tutto il movimento agricolo e agro-alimentare) vanno posti in termini precisi ed urgenti. Dalla difesa e valorizzazione delle produzioni nazionali (torniamo per un attimo al gusto: pensate quanto bene farebbe divulgare che non esiste solo il millefiori, ma che c'è il corbezzolo, buonissimo, l'agrume, la lavanda, l'acacia), alla richiesta di lotta all'inquinamento (mi dicono che le fioriture sono sempre più scarse a causa dei diserbanti), dal ridare protagonismo alle api (insostituibile il loro ruolo) e agli allevatori al rilanciare la ricerca sul settore (simpatico, ma non basta, che Celli usi le api come monitor ambientale, qui c'è da condurre la lotta alle malattie ma anche da sviluppare le produzioni). Tutte faccende che coinvolgono poteri politici e comitati tecnico-scientifici. A cominciare da una nuova politica agricola comunitaria di settore (la difesa dai mieli extraCee di scarsa qualità non è ancora sufficientemente attrezzata) per finire alla possibilità di allargare la distribuzione dei mieli locali. Faccende serie, serissime. Che però hanno bisogno di essere affrontate anche un sorriso, quasi con una tentazione di new-age: la ricerca del benessere. Non è forse questo che muove il nuovo turismo, e non è forse questo che connota il desiderio più pressante coltivato da ognuno di noi?

Bene: se così è credo che il miele dovrebbe essere il prodotto-manifesto di questa nuova era. Del resto, non c'è borgo rurale dove non esista lo spaccio di prodotti naturali e della campagna e dove non trionfino i vasettini dell'oro delle api. Ma attenzione: non sempre è miele prodotto in loco. Qui sta un punto fondamentale (e ancora dolente): se davvero si vuole dare spazio all'apicoltura bisogna che siano gli apicoltori per primi a farsi garanti della qualità e alfieri del loro lavoro. Sono convinto che l'integrazione turismo-prodotti, territorio-agricoltura di qualità, natura-benessere sia il vero nuovo motore del turismo, dell'andare per campagne, della ricerca del sé e delle proprie origini che oggi il vacanziere coltiva. Ed ecco che legare, come può avvenire per esempio in Toscana, in un'unica filiera di difesa e di proposta dei prodotti di qualità vino, olio e miele affidando a questi anche il compito di essere testimoni delle bellezze e della ricchezza di una terra è un'occasione per ridare protagonismo all'apicoltura. Senza dimenticare che comunque vada la sfida sarà dolce. Dolce come il miele.

* Guido Franci, il fondatore dell’apicoltura di Montalcino, ci ha lasciato per sempre. Il mondo dell’apicoltura italiana ha perso davvero un grande protagonista.

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