Pensare a come sarà il mondo di domani, a quali rapporti lo governeranno, agli equilibri su cui si reggerà, è un esercizio che ha molto a che vedere con la geografia. Quella fisica, fatta di confini naturali, e quella politica, fatta di confini convenzionali. Che non frenano, però, i cambiamenti, siano essi sociali, economici, culturali. Che stanno, a livelli diversi, alla base di quella rivoluzione della produzione agricola per cui da sempre si batte Slow Food. Ecco perché, nel primo giorno di Terra Madre Salone del Gusto 2020 (che andrà in scena fino ad aprile 2021), con eventi in digitale ed in 160 Paesi del mondo, si è parlato non di agricoltura o alimentazione, ma, appunto, di geografia, al centro della conferenza “Il mondo è una sfera, siamo interconnessi. Cambiamo modello economico per salvarlo”, con gli appelli di tre studiosi d’eccellenza, Franco Farinelli, Virginie Raisson e Paul Collier.
Così, un evento che tradizionalmente si occupa di agricoltura, allevamento e pesca sostenibili, di modelli di sviluppo alimentari equi, di cultura del cibo, alza il sipario parlando di geografia. Perché, come ha spiegato bene Davide Papotti, docente di Geografia culturale all’Università degli Studi di Parma, che ha moderato l’incontro, “cambiare prospettiva sul modo in cui guardiamo il pianeta è fondamentale per cambiare i nostri comportamenti e i modelli di sviluppo che abbiamo adottato fino a oggi”. In altre parole: il cambiamento per il quale da oltre trent’anni si batte Slow Food, può avvenire soltanto se cambiamo radicalmente il modo di guardare ai problemi che riguardano il pianeta. “Occorre disegnare una nuova geografia” ha spiegato Papotti. E Terra Madre l’ha fatto, mettendo da parte la consueta interpretazione geopolitica fatta di confini e di istituzioni statali, per guardare alla Terra concentrandosi sugli ecosistemi: zone collinari e montuose, aree marine, lacustri e fluviali, superfici pianeggianti e città. Ambienti che presentano specificità simili e spesso anche gli stessi problemi, indipendentemente dal Continente e dalla Nazione a cui appartengono, e che possono pertanto anche ragionare su soluzioni condivise.
Superare una logica locale, da questo punto di vista, è indispensabile. Lo testimoniano le interrelazioni tra fenomeni all’apparenza differenti, ma che in realtà hanno tutti le stesse radici. L’accelerazione sulla perdita di biodiversità, l’aumento delle diseguaglianze sociali a livello planetario, le violazioni dei diritti umani, il costante problema della fame nel mondo, le migrazioni hanno spesso un denominatore comune: la crisi ambientale, che amplifica quelle economiche e sanitarie che stiamo vivendo. C’è poi un altro aspetto da considerare, e l’ha illustrato Virginie Raisson, analista in relazioni internazionali, specializzata in geopolitica prospettiva, direttrice del centro studi francese Lépac e autrice del volume “2038. Atlante dei futuri del mondo”. “Le grandi minacce come il riscaldamento globale, la crisi energetica, le pandemie, la perdita di biodiversità, le crisi finanziari ed economiche, la criminalità informatica, non tengono affatto conto dei confini - ha spiegato la Raisson - e pertanto è importante trovare altri modi per rappresentare il mondo e mostrare le relazioni tra i fenomeni”.
La tentazione di ragionare a compartimenti stagni, di “fare a fette la sfera terrestre e pensarla mappa dopo mappa”, come ha detto Franco Farinelli, già professore ordinario di Geografia dell’Università di Bologna e docente presso le Università di Ginevra, Los Angeles, Berkeley e alla Sorbona di Parigi, e la progressiva dematerializzazione del mondo, cioè il fatto che l’attività digitale che occupa una porzione sempre maggiore della giornata di ognuno di noi, non devono avere la meglio. “Il nostro pianeta è una sfera, pertanto bisogna ragionare in questo modo, come un’unica sfera”, ha spiegato Farinelli. Una sfida durissima, ma non più procrastinabile. Se per Farinelli occorre “un nuovo umanesimo”, per Paul Collier, il direttore del centro di ricerca londinese International Growth Centre (IGC), si tratta di “recuperare quella componente di cooperazione, di “intelligenza collettiva”, andata perduta negli ultimi quarant’anni di capitalismo e che aveva invece contribuito al progresso”.
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