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LA RICETTA ANTICRISI CONSTELLATION BRANDS: ELIMINARE LA PRODUZIONE DELLE UVE, ATTINGENDO DAL MERCATO PER IL FABBISOGNO DI MATERIA PRIMA. DA QUALE MODELLO PASSERÀ LA SOSTENIBILITÀ DELLA VITIENOLOGIA ITALIANA IN TEMPO DI CRISI STRUTTURALE?

Italia
Una momento della selezione delle uve

Chi salverà il mondo del vino italiano in tempi di crisi strutturale? Chi fa qualità e persegue strategie di differenziazione legate al territorio, oppure chi lavora sui volumi e l’aggressività dei prezzi sui mercati? O in altre parole: la sostenibilità della vitienologia italiana passerà dal modello degli Chateaux francesi oppure delle Winery del Nuovo Mondo?

Domande che nascono dalla notizia che vede il colosso Constellation Brands ridurre per progressivamente eliminare (con conseguente drastica riduzione del personale) la propria produzione diretta di uve visto che l’azienda può acquistare la materia prima ad un prezzo inferiore a quanto costa produrla nei propri vigneti.

Si tratta di una notizia che certamente coglie la portata dell’impatto della crisi mondiale, comparto vino compreso, ma mette in risalto anche l’efficacia della strategia scelta dal colosso americano che risponde in modo del tutto ineccepibile sia alle sollecitazioni della difficile congiuntura economica sia, soprattutto, alle logiche di una economia aziendale di scala, che, per sua “natura” diciamo, quasi imporrebbe di non avere vigneti di proprietà, cioè costi strutturali molto onerosi peraltro facilmente aggirabili attingendo al mercato delle uve o dei vini sfusi, che, a sua volta, in un periodo di stanca, diventa ulteriormente appetibile. Al di là dell’evidente e immediata riduzione dei costi, occorrerebbe però chiedersi se esistano anche altri motivi a sostegno di questa scelta non secondaria e cioè, per esempio, se i mercati di riferimento del colosso americano siano già pronti a riconoscere e premiare vini senza origine, ottenuti da una materia prima anonima, se la Constellation Brands abbia in programma di effettuare una politica simile anche per i suoi fiori all’occhiello (imponendo medesime strategie alle aziende di cui è socia per esempio in Italia) o se abbia intrapreso un ridimensionamento dei costi strutturali proprio per permettersi di mantenere quelle produzioni d’elite. Materia certamente interessante per una riflessione successiva sui futuri assetti del mercato mondiale del vino.

Da noi, strategie di questo genere sono decisamente conosciute e praticate da quelle realtà produttive che possiamo rubricare come industriali o come orientate alla leadership di costo. In generale, queste realtà si muovono e si sono mosse all’interno del meccanismo di “elasticità” proprio dell’economia di scala per cui è possibile aggredire i mercati anche in periodo di crisi attraverso un abbassamento repentino dei prezzi che assecondi una domanda in calo e/o interessata principalmente ai vini meno costosi. Si tratta di quelle aziende che nel nostro Paese siamo abituati a definire, in modo un po’ generico, come la “galassia degli imbottigliatori” nella quale troviamo organizzazioni produttive decisamente differenti: dagli imbottigliatori in senso stretto (commerciali che saltano completamente la trasformazione della materia prima), alle grandi cooperative fino ad arrivare ad alcuni dei marchi più noti dell’enologia italiana. Sono queste le realtà produttive che hanno tirato la “volata” al vino del Bel Paese nelle crisi che si sono succedute negli ultimi decenni (inizio anni ‘90, 95-97, 2001), incrementando notevolmente i loro profitti al di là delle specificità degli scenari (come, solo per fare un esempio, la possibilità di svalutazione quando l’Italia contava ancora sul suo vecchio conio). Crisi che a posteriori, però, possiamo classificare come congiunturali e che hanno lasciato più o meno intatto il panorama imprenditoriale vitivinicolo italiano.

Tutt’altro scenario sembrerebbe prefigurare l’attuale congiuntura, che potrebbe avere invece tutti gli elementi di una crisi strutturale da sovrapproduzione e che potrebbe portare anche a dei cambiamenti non piccoli nella geografia enologica del Bel Paese. Il comparto vitivinicolo italiano, infatti, mostrerebbe già alcune indicazioni che vanno in questo senso. Guardando, infatti, sommariamente ai numeri dell’Unione Europea sulle scorte di vino (stime sul 2008) il mondo enologico italiano continua decisamente ad avere bisogno del supporto della distillazione per mantenersi in equilibrio (garantendo all’Italia un livello di scorte nell’ordine di 1 anno di consumi incluso export) e che la produzione resta largamente sopra i consumi interni e stabilmente sopra alla somma di consumi ed export, con un aumento delle scorte di vino di qualità (in costante crescita dal 2000) e con le scorte di vino da tavola anch’esse in moderato aumento (parzialmente abbattute dalle vendemmie 2002 e 2007, notoriamente molto scarse). Evidentemente, con l’arrivo della nuova Ocm e la sua progressiva eliminazione delle misure di sostegno, a partire dalla distillazione, il quadro si potrebbe complicare ulteriormente, lasciando l’estirpazione come unico strumento a contenimento della produzione.

Accanto a questa minaccia dal lato, diciamo, “quantitativo”, potrebbe arrivare anche un pericolo da lato “qualitativo”. Le aziende “quality-oriented”, infatti, costrette a sostenere costi sempre più ingenti (le ultime rilevazioni per un vino non passato in legno danno, in generale, la soglia dei 4 euro + Iva a bottiglie come prezzo limite approssimato per difetto che riesce a coprire almeno tutti i costi: di produzione e generali, incluso ammortamenti diretti, energia etc.) potrebbero non avere più margini temporali ed economici per continuare a vendere sottocosto i loro prodotti di base (come pare la difficile situazione imponga, specialmente sui mercati esteri), al fine di cercare di collocare sul mercato i vini di fascia medio-alta (purtroppo proprio quelli più in crisi) che garantiscono, però, margini di profitto decisamente alti e che consentono letteralmente alle aziende di questa tipologia di vivere.

Franco Pallini

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