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INCHIESTA

La ristorazione stellata, con le sue difficoltà ed i suoi successi, sotto la lente di “Report”

Il fine dining, e non solo, vive un momento di enorme cambiamento, ed i vecchi modelli di business, tra costi e mancanza di personale, scricchiolano

A distanza di qualche settimana dalla notizia della chiusura del Noma di Copenaghen, dettata dall’insostenibilità economica di un modello di business che sembra arrivato al capolinea, in Italia il dibattito sul futuro della ristorazione, a partire dal fine dining, entra nel vivo. La chiusura di quello che per la “50 Best Restaurants” è il migliore ristorante al mondo ha suscitato un certo clamore, eppure nella storia, più o meno recente, della ristorazione di lusso, di saracinesche ne sono state abbassate tante. La differenza, oggi, è che il caso di René Redzepi, chef innovativo e geniale, capace di segnare un’epoca tra i fornelli, è esemplificativo delle difficoltà di un intero modello, specie nel Belpaese.

Che il business dei ristoranti stellati - che, a fronte di prezzi altissimi, devono sostenere costi altrettanto alti - non sia sempre redditizio non è una novità, ma dopo due anni di pandemia qualcosa è cambiato, forse per sempre, mettendo a repentaglio la sostenibilità economica di tanti locali, stellati e non. Passata l’ondata pandemica, il primo problema, senza distinzione di “ceto”, è stato quello di reperire manodopera: lavorare in cucina e sala, almeno in Italia, presuppone una certa predisposizione al sacrificio. Che, però, i giovani non sembrano più così intenzionati a fare, come raccontano ad esempio i dati sugli iscritti agli istituti alberghieri, passati dai 64.000 del 2014 ai 34.000 del 2022, come rivelato dall’ultima puntata di “Report”, su Rai Tre.

Un crollo della vocazione figlio di contratti spesso fumosi, orari impossibili e stipendi inadeguati. Una novità? No, piuttosto una nuova consapevolezza, che porta i giovani a rifiutare condizioni lavorative che non si riscontrano in altri Paesi europei. E che, sicuramente, non sono quelle della stragrande maggioranza di giovani e meno giovani che lavorano tra i tavoli ed ai fornelli dei ristoranti stellati. Ossia, il vertice qualitativo della gastronomia italiana, una nicchia dall’enorme visibilità, ma che rappresenta appena lo 0,2% dei ristoranti italiani, per un fatturato che non raggiunge lo 0,4% del totale della ristorazione, comunque cresciuto dai 284 milioni di euro del 2019 ai 327 milioni di euro del 2022. E cresce anche il numero delle tavole stellate, passate da 334 a 378, così come il prezzo medio a persona, che in uno stellato è di 130 euro, contro i 112 del periodo pre pandemia, per arrivare a 198 euro nei due stelle Michelin, con i tre stelle, dove spesso il rapporto personale/clienti arriva ad essere 1 a 1, che toccano i 260 euro.

Ed è proprio sul business degli chef stellati, o almeno di alcuni dei più conosciuti al grande pubblico, anche in virtù di una massiccia esposizione mediatica, che si è concentrata la puntata “Un, due, tre... stella!” di Report, la trasmissione d’inchiesta condotta da Sigfrido Ranucci, che ha offerto uno spaccato tanto reale quanto parziale di un settore che, oltre a generare decine di migliaia di posti di lavoro, gioca un ruolo fondamentale nella valorizzazione di intere filiere produttive, a partire da quella del vino, che sulle tavole stellate, nelle espressioni migliori, ha la sua collocazione naturale. L’inchiesta di Report, invece, parte da Gianfranco Vissani, il cui locale, a Baschi, in Umbria, non solo ha perso una delle due stelle Michelin (nell’edizione 2020), ma ha anche dimezzato il fatturato, passato da 1,5 milioni a 750.000 euro, raddoppiando i debiti, arrivati a 3 milioni di euro.

Stando sempre all’inchiesta di Report, non va troppo meglio a Carlo Cracco, che ha detto basta alla televisione, nel 2017 aveva fatturato dalle consulenze 1,2 milioni di euro, per un giro d’affari complessivo che superava i 6,2 milioni di euro con la ristorazione. Oggi, la società che si occupa della sua immagine fattura 700.000 euro (250.000 euro di utili), e il suo ristorante, “Cracco in Galleria”, a Milano (dove paga un affitto di 1,2 milioni di euro l’anno), fattura 3,3 milioni di euro, ma è in perdita per 500.000 euro, e i debiti complessivi, tra ristorazione ed altre attività, ammontano a 16 milioni di euro, di cui 8 milioni di euro dalla sola ristorazione, che in totale fattura 10 milioni di euro. Anche Alessandro Borghese, sempre per l’inchiesta di Report, non sembra aver cominciato con il piede giusto la sua avventura milanese, almeno stando ai numeri riportati da Report, che parlano di una perdita di 74.000 euro, mentre la AB Normal, società che si occupa del business televisivo dello chef, ha fatturato quasi 1,8 milioni di euro.

Esempi virtuosi, comunque, esistono eccome. In primis quello di Massimo Bottura, con un giro d’affari di 11 milioni di euro generati dal tre stelle “Osteria Francescana”, e un utile di 2,7 milioni di euro. Heinz Beck, con la sua società di consulenza, ha un giro di affari che supera l’1,1 milioni di euro, per un utile di 990.000 euro, e gestisce ristoranti in tutto il mondo, mentre Bruno Barbieri, anche lui con una società di consulenze, ha un giro d’affari di 550.000 euro, e utili per 400.000 euro. Bastianich, con Orsone, rimasto chiuso per tre anni, fattura invece 500.000 euro, dai due milioni di euro di qualche anno fa, per appena 3.620 euro di utile.

Sulla cresta dell’onda, grazie ai tanti programmi che conduce in tv e, soprattutto, alla terza stella Michelin conquistata dal “Villa Crespia”, c’è anche Antonino Cannavacciuolo, che con la sua galassia di attività genera ricavi per 14 milioni di euro all’anno, di cui oltre 11 milioni dalle attività della ristorazione, il resto dalla televisione, per un guadagno aggregato di 1,3 milioni di euro, che ne fanno un esempio imprenditorialmente positivo.

Il panorama è quantomai vario, ma è all’estero che troviamo le case history di maggiore successo, capaci di intrecciare offerta ristorativa e visibilità mediatica, costruita sia sul piccolo schermo che sui social. Tra le storie più eclatanti, seppure dai contorni fumosi e a tratti controversi, c’è quella di “Salt Bae”, aka Nusret Gökçe, giovane macellaio turco diventato imprenditore di successo con la sua catena di bisteccherie, “Nusr-Et”, presente ormai in tutto il mondo. Diventato fenomeno social per il suo modo di salare la carne, rigorosamente in occhiali da sole, ha fatturato 8 milioni di euro con il ristorante di Londra nei soli primi 4 mesi del 2022, e aprirà presto a Milano, in Piazza San Babila: ci vorranno 120 euro per un hamburger e un drink, e 1.600 euro per la bistecca con la foglia d’oro.

Altro caso di successo, passato per tanti alti e bassi, è quello di Gordon Ramsey: 7 stelle Michelin (ma ne ha avute anche 17 in passato) in giro per il mondo, e un patrimonio da oltre 200 milioni di dollari, generato da 50 ristoranti. E “sostenuto” - per quanto possa apparire esagerato riconoscere un ruolo così fondamentale ai social - da 14 milioni di follower su Instagram. Che, piaccia o non piaccia, rappresenta un ottimi termometro per misurare il successo, anche economico, dei grandi chef. In testa, tra gli italiani, per numero di follower, troviamo Antonino Cannavacciuolo (3 milioni), seguito da Alessandro Borghese (1,9 milioni), Massimo Bottura (1,5 milioni) e Bruno Barbieri, il pasticcere Damiano Carrara e Joe Bastianich (1,3 milioni), solo per citare quelli che superano il milione di follower.

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