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La Stampa / Specchio

Figli di un Bacco minore?. 200 cantine per 300 etichette: sono i numeri della rassegna sui vitigni autoctoni in scena il 7-8 giugno a Bagnacavallo: vini ma anche cibi Doc ... Gli anni Novanta in Italia, enologicamente parlando, non hanno lasciato spazio alle discussioni: al limite qualche scaramuccia sulla barrique. D’altronde servivano a poco. Non si faceva in tempo a imbottigliare un vino che era già in viaggio, otrefrontiera, atteso con frenetica acquolina da clienti soprattutto tedeschi e nordamericani, che non si curavano di doverlo pagare ogni anno più caro, indipendentemente dalle annate. Tanto, fossero enotecari o ristoratori, c’era sempre un ultimo anello della catena disposto a commuoversi a sua volta, scorrendo la carta, e a risarcire pinguemente l’emozione consumata. Insomma, la ricetta funzionava e non mostrava crepe in cui infilare dubbi o precauzioni: sovente chardonnay, merlot e cabernet a equilibrare gli assemblaggi, diradamento in vigna, grande tecnologia di cantina, enologo superstar che comanda a bacchetta, lieviti selezionati e semmai il concentratore a dare il colpo di grazia al terroir, sacrificato sull’altare del cosiddetto “gusto internazionale”. Anni di boom che sarebbe ingegnoso liquidare come “poco lungimiranti”, visto che l’enologia italica senza quella modernizzazione accelerata sarebbe ancora a gingillarsi con i fiaschi da autogrill e con pintoni che farebbero fatica a oltrepassare il confine rionale: figurarsi a espatriare. Anni di successo di cui andare fieri, costruiti con impegno e volontà. Ma le crisi, piccole o grandi che siano, così come gli scandali (vedi metanolo) impongono la riflessione: e se si riflette bene, trascorsa la risacca, l’onda sarà più forte. Pensare, dunque, ma non necessariamente macerarsi. Al vino, che è un ingrediente cardine della convivialità, si pensa meglio in un clima rilassato, gioviale, accompagnandolo con quanto di meglio offre la tera di cui si è ospiti. Questo lo spirito che anima Figli di un Bacco minore?, la manifestazione organizzata da Slow Food e dal comune di Bagnacavallo, che si terrà il 7-8 Giugno nello splendido chiostro di San Francesco. Il sottoscritto recita: “Rassegna nazionale dei vitigni autoctoni, di tradizione e delle doc minori”, ma si può leggere “Un’occasione per pensare, per assaggiare, per emozionarsi”. Se di un po’ di crisi si è costretti a parlare, a causa del ristagno dell’economia in genere, ma anche dell’accresciuta concorrenza dai Paesi del Nuovo Mondo (e con il transgenico alle porte, che minaccia di imprimere una brusca impennata all’omologazione), la contro-ricetta di Bagnacavallo è puntare sulla biodiversità dei vitigni italiani, credere nella differenzazione, in momenti in cui stanno venendo a noia quei vini tanto ammiccanti da essere ruffiani, troppo uguali gli uni agli altri. Saranno 200 le cantine in vetrina che, impiegando 150 vitigni affatto figli di un Bacco minore, snocciolano 300 vini dalla spiccata territorialità, con “carattere”, tutti in degustazione durante la rassegna ravennate; accompagnati dai miti gastronomici dell’Emilia Romagna, siano essi le celeberrime piadine, il Parmigiano Reggiano, oppure i recenti ma già affermati Presìdi, come la mortadella classica di Bologna o il culatello del Consorzio di Zibello. Fiore all’occhiello della manifestazione, le cinque degustazioni verticali suddivise sui due giorni (30 posti disponibili, costo: 15 euro ciascuna). Sabato il Valtellina Sforzato (nebbiolo) di Triaca, Il Duca Enrico (nero d’Avola) di Duca di Salaparuta e l’Ultimo Giorno di Scuola (albana) dell’IPS Agricoltura e Ambiente di Faenza, mentre il giorno successivo sarà la volta del Costa del Vento (timorasso) dei Vigneti Massa e del Rosazzo Colli Orientali del Friuli (Pignolo) de Le vigne di Zamò. Cinque occasioni di riflettere con il metro di giudizio del piacere, e scoprire quali enormi potenzialità abbiano i vitigni autoctoni se maneggiati con cultura e passione. (arretrato de "Lo Specchio de La Stampa" del 24 maggio 2003)

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