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La Stampa / Specchio

Un museo delle etichette enologiche ha il suo fascino. Attraverso stili, curiosità e scuole che raccontano di vino ma che riescono anche ad affascinare di per sé, in qualità di oggetto artistico. Mi vengono in mente le etichette fatte a mano da Bartolo Mascarello (da «No barrique, No Berlusconi» quest’anno siamo passati a «a No barrique, no bandana, no Berlusconi») che impreziosiscono un grande vino con un artigianato che è al confine con l’arte, espressione di una viscerale (e irriducibile) «contadinità». E poi, per restare in Piemonte e parlando di un’altra bevanda, la grappa, c’è il grande Romano Levi che realizza, pure lui a mano, etichette fantastiche.

La grappa, appunto, della quale non sono mai stato un grande cultore, ma che devo citare perché, causa le solite assurde, regole europee, rischia di non essere più un nome esclusivo dei prodotti italiani. Infatti si paventa una revisione del Regolamento del Consiglio Europeo sulle bevande alcoliche che potrebbe far fare al nome «grappa» la stessa fine che fecero Brunello, Amarone, Morellino, Vin Santo.

Solito discorso: nel nome di per sé non è contenuto uno specifico riferimento geografico, per cui largo alle grappe australiane, statunitensi, cinesi. Immaginate che business per le multinazionali dell’alcol, che già producono vodka, gin, rum perfettamente globalizzati. Una rivoluzione, a trarre vantaggi dalla quale, ovviamente, saranno i soliti pesci grossi, a danno di un settore nazionale, quello delle distillerie, che conta oltre 10.000 addetti e, in mezzo, prodotti di gran pregio: 136 distillerie, 1.500 aziende che imbottigliano e distribuiscono, un fatturato complessivo di 600 milioni di euro: tutto fatto nel nostro Paese, ma potrà non essere così.

Nel corso della manifestazione GrappItaly, a Perugia il 19 e 20 febbraio, si parlerà anche di questo pericolo: dibattiti di accompagnare non soltanto ad una stizzita indignazione, ma a un’azione concreta per fare in modo che questi «errori» della Ue smettano di danneggiare il nostro patrimonio agroalimentare che, nonostante le vicissitudini, rimane pur sempre un patrimonio di grande valore se confrontato alla situazione di altri Paesi dell’Unione.

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