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La Stampa / Specchio

“Non dobbiamo vergognarci del successo”. Benessere uguale perdita dell'anima. Petrini non è d'accordo: "niente eccessi, ma dobbiamo aprirci al mondo" ... Nel luglio 1986, con un congresso svoltosi nelle tenute Fontanafredda di Serralunga d’Alba, nasceva l’associazione Arci Gola, antesignana del movimento internazionale Slow Food. In Piemonte era appena scoppiato lo scandalo del vino al metanolo, una tragedia che non solo causò 23 morti intossicati nel Nord Italia, ma segnò il punto più basso per l’enologia di Langa e Monferrato. Quel gruppo di animatori culturali e buongustai, riunito da Carlo Petrini nel nome di un piacere enogastronomico più consapevole, si battè anima e corpo per far risorgere le colline di produzione del Barolo e del Dolcetto: sostennero i produttori di qualità, rilanciando la gastronomia tipica e le tradizioni del territorio. Ora, vent’anni dopo, i viticoltori di quelle zone girano il mondo a presentare le loro etichette, gli chef sono diventati star della televisione, ovunque l’attività economica ferve con grande vigore. Si è persa la poesia d’un tempo, come sembrano denunciare i personaggi dell’ultimo libro di Nico Orengo? Davvero, insieme con la povertà, è scomparsa anche l’anima di quelle terre un tempo grame? Petrini rifiuta di accettare questo ragionamento, anche se spesso ha puntato il dito contro l’eccesso di capannoni e provocatoriamente ha detto che ai confini di Alba si sarebbe dovuto mettere un cartello: “Zona colpita da improvviso benessere”. Il presidente di Slow Food non ha nostalgia degli anni duri e non rinnega neppure un passo di quelli compiuti dall’associazione della chiocciolina insieme con tanti produttori d’eccellenza.
Petrini, ricordi quella battuta sull’”improvviso benessere”?
“Be’, sì, è abbastanza vera. Ma non si può dimenticare che, una volta tanto, la classe contadina si è potuta riscattare. Non credo che per star bene si debba sempre avere le ‘pezze sul sedere’, come diciamo dalle nostre parti”.
Una delle accuse rivolte da chi lancia l’allarme sulla “Langa che scompare” riguarda la comparsa di nuovi vini caratterizzati da un taglio internazionale. Prodotti perfetti, dal gusto ineccepibile per il mercato globale, ma che dimenticano il valore dei vitigni autoctoni…
“Questo interesse è nato dall’esigenza di confrontarsi con il mondo. Non penso che per questo si possa accusare la Langa di essersi venduta l’anima. La produzione, del resto, lo dimostra ampiamente. I vitigni autoctoni sono ancora fortemente saldi, anche attraverso la presenza dei tanti vini realizzati con un solo vitigno come Barolo, Barbaresco, Dolcetto, Barbera. Penso che sia stato giusto provare qualche novità, senza snaturare l’offerta tradizionale. A sostegno di queste parole ci sono le etichette sugli scaffali delle enoteche: sono loro a parlare…”.
Per restare nel mondo del vino, alcuni lamentano il fatto che le capacità manuali e tradizionali si stiano perdendo, mentre tutti diventano “venditori” e “consulenti”. Quale opinione ti sei fatto? Esiste questo fenomeno?
“In parte sì e in parte no. Il fronte contadino si è ristretto in modo impressionante in tutto il sistema-Paese. Negli anni Cinquanta circa la metà della popolazione lavorava nei campi, adesso siamo al quattro per cento. Gli effetti sono stati anche positivi: tutto ciò non ha significato miseria, ma ricchezza. E’ giusto essere critici verso un certo modo di intendere il benessere ma si può rifiutarlo del tutto”.
Dopo la crisi del metanolo, i viticoltori langaroli hanno saputo risalire la china. Ma oggi si è un po’ esagerato: basta girare per “bricchi” famosi in quanto diventati grandi cru sulle etichette delle bottiglie, per trovare auto di grossa cilindrata, ville con piscina, tanti segni di un lusso ostentato.
“Non ci si deve dimenticare che si è verificato un certo imbarbarimento, ma non si può essere pessimisti. Siamo ancora in tempo per correre ai ripari. La situazione non è compromessa. E vedo nuove generazioni che si affacciano con una maggiore sensibilità ambientale, attente ai temi della sostenibilità e della qualità produttiva. Forse qualcuno, tra quanti sono passati direttamente dalla miseria al benessere, può essere stato obnubilato da certi stereotipi. Chi era abituato a doversi servire di un gabinetto nel cortile, magari è pronto ad affidarsi al classico geometra per rifare la casa, anziché restaurarla con gusto. Generalmente, chi oggi ristruttura lo fa con maggiore criterio”.
Scusa, Carlin, ma vorrei ricordarti che sei stato proprio tu il primo a lanciare veementi atti d’accusa contro i capannoni industriali che deturpano il paesaggio …
“Certo. E rivendico quelle battaglie. Ci siamo anche battuti contro la monocoltura, che ha distrutto parti d’ambiente importanti: i boschi che prima stavano in mezzo alle vigne avevano una precisa funzione. Dopo la loro scomparsa non ci sono più gli uccelli che mangiavano gli insetti e tutto l’ambiente ne ha risentito. La monocoltura eccessiva, con l’aumento della produzione e delle vigne, è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. Del resto il langarolo scontento che beve birra e fa il taxista, il personaggio creato da Orengo in Di viole e liquirizia, denuncia molto bene tutti questi problemi”.
Qual è la soluzione? Si deve tornare alla Langa di Pavese e Fenoglio?
“Ma no! Chi idealizza i tempi della Malora dall’alto del suo benessere, mi fa ridere! Avessero vissuto loro in quel periodo… Piuttosto va detto come oggi non sia più possibile pensare a un discorso di sostenibilità ambientale e di ricomposizione del tessuto agricolo senza una visione globale. Il vino della Langa è destinato al mercato internazionale, quindi dobbiamo incominciare a pensare che il nostro micro-cosmo è interconnesso con il sistema-mondo. Questo significa fare certe scelte e creare un prodotto che sia ‘buono, pulito e giusto’. Si deve mantenere il rigore, senza perseverare negli errori ma correggerli. La giustizia nasce da una considerazione più ampia del concetto di benessere: non soltanto quello della Langa, ma di tutti i produttori agricoli, anche quelli meno fortunati di chi fa il vino. Senza per questo vergognarsi di aver lavorato bene”.
Dunque, non vi pentite di quanto avete fatto in questi vent’anni?
“Se ti riferisci a noi di Slow Food, ti rispondo che non ci sentiamo tra quanti sono stati colpiti da improvvisa ricchezza, semmai da una certa autorevolezza. Quanto ai produttori, quelli onesti non hanno nulla di cui pentirsi”. (arretrato de "Lo Specchio de La Stampa" del 15 ottobre 2005)

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