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La Stampa

Il sapore del tifo -Continua il viaggio alla scoperta dei rapporti fra pallone e buona tavola
Il sapore del tifo, il tifo del pallone. Eccoci a Montefalco, nell´azienda di Marco Caprai, «inventore» del Sagrantino. Si ferma qui (per ora) il viaggio là dove i paradisi enogastronomici s´intrecciano con le magie pallonare. In attesa di riprendere quando il campionato farà sosta. C´è un Bacco anche per il Perugia ...

Il vitigno di Caprai, una bandiera oltre l´Umbria ... Dal lunedì al sabato i vigneti e la cantina. La domenica il Perugia. In casa e, spesso, fuori casa, nella buona e nella cattiva sorte. Vengono da una serie di grandi stagioni, i grifoni, un filotto che ha rinverdito il ricordo del grande Perugia della seconda metà degli anni '70, quello di D'Attoma e Castagner, di Ramaccioni e Novellino. Proprio come le ultime annate in bottiglia, una migliore dell'altra, peccato sia arrivata un'estate che a tutto somigliava fuorchè a un'estate sicchè anche a Montefalco, come nel resto d'Italia, per la prima volta da tanti anni a questa parte la vendemmia non sarà una festa. «Annata difficile, per noi come per tutti. Veniamo da un lungo periodo favorevole, avevamo perso l'allenamento alle disavventure climatiche. Speriamo ancora che il tempo si dia una calmata, poi ci rimboccheremo le maniche e vedremo di fare del nostro meglio». Marco Caprai, 38 anni, nato a Foligno, perugino di studi e d'adozione. La famiglia opera nel tessile, lui quindici anni fa chiese a papà Arnaldo di potersi occupare dell'azienda agricola: c'era un vitigno autoctono, praticamente sconosciuto oltre i confini della regione, che lo incuriosiva e lo titillava. Oggi il Sagrantino è una bandiera del territorio umbro che sventola ben oltre i confini nazionali. Come, nelle annate migliori, è accaduto anche al Perugia. «Per me è la squadra del territorio e del cuore. Vado allo stadio dal '74, a quell'epoca mio padre era consigliere con D'Attoma. Gran personaggio, abile nel coinvolgere in quella splendida avventura il fior fiore degli imprenditori locali, lui che era di origini baresi, e geniale nell'anticipare i tempi e le tendenze. Mise in piedi una società modello da cui nacque, passo dopo passo, una squadra da quartieri alti che faceva un gran calcio e arrivò a sfiorare lo scudetto del '79. E forse lo avrebbe potuto vincere, se ad un certo punto della stagione non si fosse lasciata stregare dal mito dell'imbattibilità: questo è un rimpianto giovanile che di tanto in tanto mio malgrado riaffiora. Comunque bilanci in attivo, innanzitutto, giovani talenti pescati da quel rabdomante che era Ramaccioni, e poi valorizzazione tecnica e tattica da parte di Castagner. Fatte le debite proporzioni, un modello non molto dissimile da quello del Perugia di oggi». Proporzioni di epoche, anche di risultati, certamente di stile. Tra D'Attoma e Gaucci corre la stessa differenza che tra Alec Guiness e Panariello, ma se la mettiamo sull'efficienza è vero, questo Perugia non è poi così distante da quello che fu. A cominciare dalla capacità di saper pescare in basso, dentro e fuori i confini perché a differenza di allora così vuole il calcio globale, miscelando i giovani di talento ai meno giovani di temperamento. Tutto questo in tempi oggettivamente assai più difficili per le piccole società di provincia. «Io credo che anche questo Perugia sia un esempio trainante per il calcio italiano. La capacità imprenditoriale della famiglia Gaucci non può essere messa in discussione, con una squadra in serie A, una in B e una in C, tutte e tre in città importanti come Perugia, Catania e San Benedetto e tutte e tre con i bilanci in ordine e risultati sportivi eccellenti. A Perugia in particolare non so che cosa si possa chiedere di più rispetto a quello che abbiamo avuto in questi anni. Fermo restando che io allo stadio sono sempre stato abbonato, e ho bei ricordi anche degli anni di serie C con Di Livio e Ravanelli, in queste due stagioni con Cosmi ho visto bel calcio, a tratti bellissimo, e scoperto giocatori sconosciuti e bravissimi. E prima di Cosmi c'erano stati Castagner, Boskov, Mazzone, gente che appena era possibile sapeva come farci divertire». Peccato che ai più bravi non ci sia il tempo di affezionarsi perché il loro destino è quello di andarsene. «Peccato sì, ma è l'unico modo di stare a galla coi bilanci. E' un destino che prima o poi riguarderà anche Cosmi, e quello sarà un dispiacere ancora più grande perché per me è davvero un fenomeno. Un emblema anche del territorio, autoctono ed esplosivo come il Sagrantino. D'altra parte un allenatore di quelle capacità merita di misurarsi con una grande squadra. Così come, se parliamo di giocatori, il salto di categoria lo meritava Baiocco che sarà una sorpresa per la Juventus e per il campionato. Anche se non clamorosa come quella che ci godremo noi, almeno per quest'anno. Mai sentito parlare di Miccoli? Spumeggiante, scattoso, frizzante da far saltare il tappo. A parte un gol da cineteca segnato nell'ultima amichevole, davvero da standing ovation. Ne riparliamo tra qualche tempo». Mai tradito il Perugia, nemmeno negli anni bui? «Nel modo più assoluto mai. Al massimo affiancato dalla grande squadra del momento, la Roma di Falcao e di Conti, piuttosto che il Napoli di Maradona o il Milan degli olandesi. Ma sempre fermandomi all'aspetto estetico, all'ammirazione, senza mai sconfinare nella passione: gli occhi sono sempre disponibili, il cuore no, su quello c'è l'esclusiva». Gli idoli in assoluto. «Novellino il primo in ordine di tempo. Un po' dribblomane, ma sempre importante e spesso decisivo. Poi il Bagni dei primi tempi, ultimamente Nakata: a Perugia ha fatto cose eccezionali. Ho scoperto poi che oltre ai piedi buoni avevano anche palati raffinati. Nakata è un gourmet di prim'ordine, che ama la ristorazione di classe e beve solo grandi vini. Novellino, che ho sempre seguito nella sua carriera di allenatore e che mi sembra molto, ma molto bravo è un cultore del Sagrantino. Dal mio punto di vista è un bel valore aggiunto».

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