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La Stampa

Boicottaggio Usa di tutto ciò che è francese, anche di nome: imperversa la "guerra del vino" ... New York. Questa è una storia vera. Un ragazzo parigino di ottima famiglia, che lavora per una banca d'investimenti a New York, sta sorseggiando un cognac nell'esclusivo Lotos Club di Manhattan. Un amico gli chiede: «Quanto è difficile essere francesi oggi in America, con questa storia del boicottaggio per l'Iraq?» Lui rotea gli occhi e risponde così: «Non me ne parlare! Ieri la mia ragazza mi ha detto che deve discutere della nostra relazione con sua madre, perché forse è arrivato il momento di boicottare anche gli uomini francesi. Se mi lascia, vado a protestare contro Chirac davanti al nostro consolato». Farà pure ridere, questa storia degli americani che sbattono la porta in faccia ai francesi, ma da giovedì è diventata una questione di Stato. Un giornalista, infatti, ha chiesto al portavoce della Casa Bianca se il governo appoggia il boicottaggio, e il serissimo Ari Fleischer ha risposto così: «Stiamo vedendo il popolo americano che parla in maniera spontanea, e ciò è nel suo diritto». La presidenza, dunque, ha dato la benedizione al rigetto, alla faccia del generale Lafayette, Alexis de Tocqueville e la povera New Orleans, che rischia di dover abbattere il quartiere francese. I due Paesi che alla fine del Settecento chiusero l'era degli Stati monarchici, per aprire quella delle democrazie, non si capiscono più, e litigano anche sul vino da mettere a tavola. Per ora è solo un'espressione un po' provinciale di patriottismo, ma se consideriamo che nel 2001 le esportazioni francesi negli Stati Uniti hanno toccato i 28,5 miliardi di euro, ce n'è abbastanza per farsi male. Il primo eroe della rivolta è stato Anthony Tola, proprietario dell'Old Bay Restaurant di New Brunswick: si è fatto fotografare mentre svuotava nella tazza del gabinetto vini e champagne francesi per un valore di mille dollari, e poi ha tolto dal menu tutte le bottiglie rimaste, rispedendole all'importatore. Il suo esempio è stato seguito persino dalla mensa del Congresso (buvette è un termine mai esistito e comunque bandito), che ha tolto l'aggettivo «francese» da tutte le sue portate. Così le «French fries» sono diventate «freedom fries», da «patatine fritte francesi» a «patatine libertà», e la stessa sorte è toccata al «French toast» e alla «French onion soup». Una catena di supermercati di Chicago, la Garden Fresh Market, ha eliminato dodici prodotti importati, tipo l'acqua Evian e la mostarda Marquis de Dijon. Invece il giornale conservatore di Rupert Murdoch, il «New York Post», che aveva già messo in prima pagina una foto dei cimiteri militari di Normandia accusando i francesi di ingratitudine, ha pubblicato un vademecum per sostituire i vini francesi con quelli locali o di Paesi alleati. Per esempio il bianco borgogna Jacques Saumaize Pouilly Fuisse, che costa 28 dollari a bottiglia, si può sostituire con il Rosemount Estate Chardonnay dell'Australia, che costa appena 10 dollari. Il Bordeaux Carruades de Lafite Paulliac, che costa 35 dollari, può lasciare il passo al californiano Carmenet Dynamite Vineyards Cabernet Sauvignon, che viene 15 dollari in meno. Funziona il boicottaggio? Secondo il Wine Institute i vini francesi stavano comunque perdendo terreno da almeno cinque anni, mentre gli snob di New York ignorano Bush e continuano a bere quello che vogliono. Anche la guerra d'indipendenza, però, era cominciata buttando nel porto di Boston il tè destinato a Londra.

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