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La Stampa

Il gusto del cibo ha un raggio di trenta miglia - Una ricerca condotta tra i clienti dei maggiori supermercati inglesi mette ai primi posti delle richieste il desiderio di trovare disponibili prodotti alimentari di origine locale e con caratteristiche stagionali.
Prima della rivoluzione introdotta dalla tecnologia alimentare e delle opportunità offerte dai trasporti, le spinte alla globalizzazione della distribuzione dei cibi erano limitate ai prodotti di più alto valore aggiunto –spezie, alcolici, frutta esotica, formaggi, carni e pesce conservato-, oltre ai cereali, che già all’epoca dell’Impero Romano attraversavano il Mediterraneo. Oggi, in tutto l’Occidente, anche carni e pesce fresco, ortaggi, latte e uova viaggiano normalmente oltre i mille chilometri, secondo una tendenza che vede sempre più distanti produzione e consumo: non è il caso di essere autarchici o passatisti per constatare come tutti questi viaggi incidano negativamente non solo sulla freschezza e sul gusto dei prodotti, ma anche sui costi e sull’ambiente.
Che senso ha mangiare, come è capitato a chi scrive, pesce fresco di giornata proveniente dalle coste francesi in un ristorante canadese? L’aumento della conservabilità, l’affermazioni di modelli extra-territoriali (siano essi lo snak a buon prezzo o il prodotto d’élite), la fretta di soddisfare all’istante ogni sfizio gastronomico (tanto in qualche angolo del mondo è sempre la stagione giusta per produrre fragole in inverno, mele in estate) e la riduzione dei costi di trasporto hanno infuito profondamente sulla provenienza dei cibi presenti nel nostro frigorifero: carni irlandesi e salmoni norvegesi, latte tedesco, ciliegie slave, olive tunisine, vini sudafricani o cileni; e poi farine cnadesi o australiane –ogm free? Mah, chi può dirlo? Probabilmente no, considerando che le contaminazioni finto-accidentali sono sempre più diffuse- dentro il pane, la pasta o i biscotti; patate olandesi nel preparato per il purè, malto russo come base del whisky scozzese e tonno giapponese dentro la scatoletta.
Il guaio è che queste informazioni sono celate dietro i segreti inviolabili, nascoste dall’omertà dell’etichette e, spesso, si tratta di vere e proprie frodi per strappare un prezzo più alto all’ignaro consumatore. Tra poco, ad esempio, inizierà la celeberrima Fiera del tartufo bianco di Alba, dopo una stagione eccezionalmente siccitosa che non ha certo favorito la crescita del pregiato tubero. Beh, vogliamo scommettere che il tartufo non mancherà per un mese intero? Tanto, in fin dei conti, è pur sempre una questione di nome e di prezzo: basta chiamarlo “d’Alba” perché un tartufo slavo decuplichi il suo valore nel passaggio di mani tra un trifulé serbo e un commerciante albese. Viaggiare, dunque, pur di soddisfare ogni voglia del consumatore, “indirizzato” da spot e mode, dalle rubriche “gustose” in calce ai Tg e dai consigli che ormai si moltiplicano su ogni rivista, anche non di settore. Consigli mordi-e-fuggi che non tengono in alcun conto di territorio, stagione, fedeltà delle tecniche di produzione agli usi tradizionali.
Viaggiare, per assecondare ogni fregola dello chef, cui la “fantasia” ha suggerito in pieno autunno che serve il ribes per l’eccellenza di un certo piatto o, al calduccio in una baita alpina, ha deciso che serve un’arancia del Gargano per il dessert. Una filosofia slow suggerisce, invece, di tornare il più possibile a produzioni e consumi locali; di assecondare l’onda crescente dei farmer’s market che nel mondo anglosassone hanno contribuito in modo decisivo a far riscoprire le piccole produzioni artigianali ed ecosostenibili, così come il rapporto diretto fra il coltivatore e l’acquirente.
Non sarà certo un caso se una recente ricerca condotta in Gran Bretagna fra gli utenti dei supermercati ha permesso di stabilire che al terzo posto (appena dopo la richiesta di prezzi più bassi e di un maggior numero di promozioni), fra i desideri di chi frequesta le grandi superfici commerciali, è quello di trovarvi cibo prodotto localmente, vale a dire non oltre le trenta miglia dal luogo di acquisto. Evidentemente si comincia a capire quanto possa guadagnare in fragranza, sapore, profumo un pomodoro raccolto da poche ore a pochi chilometri dal punto vendita, rispetto a un altro colto immaturo agli antipodi, stoccato per giorni se non per settimane in frigorifero e infine sottoposto allo stress di un trasporto transoceanico. Se rivendicare il piacere di un prodotto che arriva “da vicino” è indice di nostalgia per il buon tempo andato, allora sì, chiamatemi nostalgico!


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