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La Stampa

Il caso - “La crisi non è del vino, ma dei prezzi”. Giacomini (Cavit): “con listini ragionevoli le vendite aumentano”. Contro la riflessione confermata dall’Ismea la ricetta di un colosso del settore … Le ultime rilevazioni dell’Ismea confermano la flessione dell’export vinicolo italiano annunciato in tempo reale da Assoenologi, che conclude a Reggio Calabria il suo congresso annuale. Il saldo attivo di settore nei primi due mesi dell’anno è sceso a 293 milioni di euro dagli oltre 340 milioni dello stesso periodo del 2003, segnando una riduzione del 14%. In particolare i vini da tavola chiudono il primo bimestre 2004 con un aumento delle vendite all’estero in termini quantitativi del 2,6%, mentre l’area doc-docg arretra del 17% sul primo bimestre 2003. Quindi i problemi riguardano soprattutto la fascia più alta di prodotto e il perché, come sottolinea Giovanni Minetti, presidente del Consorzio del Barolo, la situazione di incertezza economica crea problemi reali e psicologici a tutte le latitudini, con ricadute evidenti.

La flessione del mercato non va, però, banalizzata, c’è ma non per tutti: i consumi sono rimasti pressoché uguali, ma gli acquisti si sono spostati da una fascia all’altra. A pensarla così è Giacinto Giacomini, direttore generale di Cavit, il gruppo enologico trentino con un fatturato di 230 milioni di euro, e 7.000 ettari di vigneto distribuito su 5.400 soci conferitori. “Se piccolo è bello, grande è buono - dice Giacobini - Chi storicamente ha sempre avuto un buon rapporto qualità-prezzo non ha problemi e pensare che una volta i concorrenti ci prendevano in giro perché, nel momento del boom, non aumentavamo i listini”. Oggi le vendite di Cavit sono in crescita, in piena controtendenza, proprio grazie alla stabilità dei prezzi, persino in Germania e Gran Bretagna. “Perché - spiega il direttore generale di Cavit - non si può abbassare i prezzi oggi, i clienti si sentono presi in giro, piuttosto è meglio studiare produzioni mirate: legate ad un evento, alla stagionalità, alla ristorazione”.

Ci vuole, insomma, una logica nel vedere e nel consigliare gli acquisti, soprattutto quelli della ristorazione. Fatto confermato dalla rivista “Wine Magazine”, che ha attribuito a Cavit il primo posto come marchio di vini italiani nella ristorazione Usa, dalla pizzeria al locale di lusso. “Una vera ricetta - prosegue Giacomini - contro la flessione di questi ultimi tempi c’è e non c’è: ci sono aziende che regrediscono e altre che vanno avanti tranquillamente. Credo che ad avere un futuro senza problemi saranno quelli che non hanno perso la testa a proposito di prezzi, come purtroppo, invece hanno fatto in molti. Negli anni scorsi tutti pensavano di poter diventare un mito, ma la realtà è che i vini si devono bere, il che vuol dire che la gente deve avere i soldi per comprarli”.

Insomma attenzione al cliente, alle sue possibilità e ai suoi gusti: bisogna capire che cosa vuole il consumatore e bisogna farlo tenendo i piedi per terra, perché le strategie di chi fa vino sono, per forza di cose, poliennali. “Non possiamo alzarci la mattina e dire: adesso vanno i bianchi o i rossi - spiega il manager di Cavit - Quindi bisogna creare uno “zoccolo duro” con prodotti legati al territorio, ma facili da comunicare, da bere e da vendere. Poi creare “capolavori” comunque accessibili. Noi facciamo, ad esempio, il “Maso San Valentino”, pinot nero, prodotto in non più di 6.000 bottiglie, che vendiamo attorno ai 9 euro”. La ricetta, dunque è creare una base di riferimento sugli autoctoni. Poi avere prodotti buoni, giusta collocazione di mercato, prezzo e distribuzione.

Inoltre: non farsi travolgere dalle mode, avere fiducia nell’identità dei vini, perché non si può copiare, visto che solo il territorio da là. “E questo vale - conclude giacobini -anche per quei vitigni “ubiquitari” (Merlot, Cabernet, Sauvignon) che, però, coltivati qui danno risultati assolutamente unici. La vocazione del territorio non va travisata e non bisogna nemmeno farsi ammaliare troppo dai nuovi mercati. Io prima di tutto voglio essere profeta in patria: pensiamo all’appeal turistico dell’Italia e la vetrina che è per il mondo. In parallelo le tre aree di vendita sempre assolutamente remunerative sono: Usa, Germania e Gran Bretagna. (arretrato de "La Stampa" del 27 giugno 2004)

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