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La Stampa

La buona tavola è un "lusso" alla portata di tutti ... Non è per parlare sempre male dell'industria e dell'industrializzazione, lungi da me demonizzare qualcosa che ha saputo senz'altro portare sviluppo e benessere, ma se parliamo di cibo ci sono alcune considerazioni che mi preme fare in merito. Mi trovo in India, paese nelle cui campagne esistono millenarie tradizioni alimentari, che possono contare su una biodiversità di materie prime e tecniche produttive incredibili: nella caotica Delhi però ho osservato cosa vuol dire prodotto industriale alimentare, a che estremi può essere portato il suo svilimento. I prodotti, sia che arrivino dall'estero, sia che vengano fatti in loco, sono di pessima qualità, molto spesso sono venduti già scaduti, senza nessun rispetto per l'alimento in sé. Ciò che si smercia è più un qualcosa di «moderno», un'idea di comunicazione e un marchio che nulla più hanno a che vedere con le reali caratteristiche di ciò che poi si mangia. Questa vera e propria degenerazione, che da noi non raggiunge più tali livelli per una fortunata attenzione a norme sanitarie e a leggi decisamente meno permissive, è soltanto la peggiore conseguenza di un processo in atto in tutto il mondo, tanto nei Paesi ricchi quanto in quelli poveri. L'abitudine a demandare la produzione del cibo all'industria ha reciso completamente il nostro cordone ombelicale con la storia gastronomica e la conoscenza dei prodotti. Lo stile produttivo industriale, tanto in agricoltura quanto per quello che riguarda la trasformazione, ci ha allontanati inesorabilmente dalla realtà, facendoci dimenticare tutto quello che riguarda il prodotto in sé. Esso arriva a noi in confezioni colorate, promosso da pubblicità che evocano di tutto meno che il contenuto della scatola e nessuno sa più nulla delle materie prime, della loro provenienza, di come sono state trattate, di quale processo hanno subito per diventare poi ciò che si compra al supermercato e finisce nei nostri piatti. Le tradizioni si mescolano al marketing, le invenzioni vogliono replicare il passato eliminando inconvenienti e scomodità. Non sarebbe un peccato, almeno se non si fossero persi il valore e il rispetto per la materia prima e per il gusto. La maggior parte della gente non se ne preoccupa perché non sa: nel senso che il livello di ignoranza sul cibo ha raggiunto livelli tali per cui ne è automatica la trasmissione di generazione in generazione esattamente come una volta era automatico far vedere ai figli come si cucina, dove si raccolgono i frutti, come vengono allevati gli animali. Un tempo queste conoscenze erano necessarie per la sopravvivenza, ora che c'è il benessere a fare tutto ci pensano i pochi contadini rimasti a praticare agricoltura massiva e l'industria alimentare. Abbiamo messo nelle loro mani il sapere del cibo e non ci preoccupiamo più di nulla. Soprassedendo sulle eventuali responsabilità di questo stato delle cose, si capisce che errore madornale sia quello di farsi due idee differenti su ciò che è alimentazione, sussistenza, e ciò che è gastronomia, piacere. Non è vero: il cibo è cibo, qualunque prodotto può essere buono o no, che sia semplice o complesso, artigianale o industriale. La gastronomia è cultura del cibo nel senso più ampio possibile. «I gastronomi mangiano bene perché hanno i soldi per comprarsi prodotti eccellenti, di nicchia, chi fa la spesa tutti i giorni e guadagna 1.200 euro al mese non può certo permettersi di mangiare come un gastronomo!» Quante volte l'ho sentito dire. Beh, invece io dico che tutti possono essere gastronomi, perché il gastronomo mangia bene in funzione della sua cultura del cibo, approfondisce la sua conoscenza a tutti i livelli e sa scegliere. Non è mica necessario spendere fior di baiocchi e pasteggiare a foie gras e Sauternes tutti i giorni! Il gastronomo ricerca la carne migliore, il pane migliore, l'olio migliore, conscio di cosa sta comprando, da dove proviene e che trasformazioni ha subito. Ha rispetto del prodotto e del produttore, tant'è vero che paga il giusto, paga per una gratificazione al produttore bravo e perché sa che per fare le cose bene gli sforzi produttivi costano. Ma non è il caso di svenarsi, credetemi. Semmai è il caso di tornare a considerare il cibo come una cosa preziosa, tornare a dargli il giusto valore, a capire che cosa comporta in termini di costi ambientali, sociali e culturali. È una cosa che dovremmo finalmente fare tutti, dal contadino, all'industriale, alla massaia, al gourmet. (arretrato de "La Stampa" del 4 ottobre 2004)

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