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La Stampa

De gustibus - La tradizione e la fedeltà al territorio nel successo delle bottiglie targate Italia ... Il sipario su Vinitaly è calato ormai da quasi una settimana e le impressioni, i commenti e i bilanci si sono, come sempre in questi casi, sprecati. Non tornerò dunque su tali argomenti se non per trarne uno spunto di partenza che serva a riflessione più ampia e articolata sulla situazione enologica attuale, italiana e non solo. Dunque si è detto, e i miei collaboratori presenti a Verona me lo hanno confermato, che l’ultima edizione della fiera ha segnato un’inversione di tendenza rispetto al recente passato: si sono rivisti importatori assenti da anni, agenti nazionali ed esteri, ristoratori, enotecari e, lasciatemelo sottolineare, un pubblico di livello e competenza sempre più elevati. I volti dei produttori erano finalmente meno tirati, il loro impegno è stato intenso per tutti e cinque i giorni: insomma, si è respirata un’aria da rinnovamento incipiente e auspicato. Il dato positivo, in fondo, era atteso. Gli indici delle vendite, dei consumi e delle esportanzioni di vino italiano volgevano al bello da almeno qualche mese, con tutta la solita ridda di considerazioni del caso: non da ultimo, la speranza che il momento difficile fosse e sia in via di superamento. Su questo punto vorrei stendere qualche mia osservazione. L’immagine del nostro vino è sicuramente in ripresa. Le ragioni sono senz’altro da ricercarsi in un mutato contesto internazionale, in una sia pur timida ripresa di fiducia del mercato globale, in operazioni di marketingmirate e ben sviluppate.Ma io vorrei scendere ancora più in profondità e rilevare che, se di ripresa si tratta o si tratterà nel breve termine, il merito principale andrà a quella miriade di contadini e piccoli produttori che, in questo periodo certamente poco facile, non si sono persi d’animo, che hanno, come diciamo noi piemontesi, «puntato i piedi», tenendo duro e ricercando in una qualità sempre più alta e trasparente la soluzione dei problemi. Su questo aspetto non ho dubbi: è lo straordinario patrimonio di biodiversità, di saperi antichi resi attuali, di esperienze acquisite, di apertura al confronto che sta facendo e farà la differenza. Quando mi riferiscono che, sempre a Verona, i padiglioni dove si respirava maggiormente questo ottimismo ritrovato erano quelli del Piemonte e della Toscana, non mi stupisco affatto: senza nulla togliere alle altre regioni che hanno fatto passi da gigante, sono quelli i due esempi più lampanti della tradizione, della storia e della fedeltà al terroir esistenti nel nostro Paese. Più in generale non mi stupirei se a Vinitaly i prodotti più apprezzati fossero stati i vini ottenuti da vitigni autoctoni o comunque quelli fortemente caratterizzati dal territorio. Non c¹è nulla da fare: la parola d’ordine su cui lavorare insistentemente è «identità»: nelle scelte agronomiche, nelle tecniche produttive, nello stile da infondere ai nostri vini. Solo così possiamo davvero sperare di traghettare la nostra enologia da una fase senz’altro già brillante,maancora caratterizzata da confusione e scelte spesso improvvide, verso una compiuta maturità. Quando io penso alla Francia, alla Borgogna per esempio, ma anche a Bordeaux, alla Loira, allo Champagne, mi viene subito in mente un tratto preciso di quei vini, li associo con immediatezza a una personalità, a un timbro nasale definito, a un gusto spiccato e proprio. Ecco allora: la riconoscibilità, che è poi un modo più concreto per parlare dell’anima di un vino, deve essere un altro obiettivo da raggiungere. Nelle nuove frontiere enologiche internazionali, e vengo all’ultima considerazione, questo risultato non si può ancora raggiungere se non con le dovute, rarissime eccezioni. Il perché è semplice da capire: manca quella storicità di esperienze e sapienzialità che sta alla base di uno stile produttivo codificato e assodato. E allora va bene il costo ridotto di quelle bottiglie, va bene l’innegabile facilità di approccio, va bene tutto: ma il piacere che può dare un vino europeo di lunga tradizione, meglio ancora se prodotto nel nostro ricchissimo vigneto italiano, resta un piacere inimitabile, che può riconciliare i nostri sensi e raccontare storie straordinarie di dedizione, fatica e passione. (arretrato de La Stampa del 16 aprile 2006)

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