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La Stampa

Il patriarca che sceglie il tappo a vite per salvare vino, sughero e tradizione ... L’immenso vigneto Italia in questi giorni riecheggia delle voci di una miriade di contadini alle prese con il momento cruciale della vendemmia. Ma, benché attenzioni e competenze dei vignaioli siano in questo momento concentrate sulle questioni prettamente legate alla campagna, vorrei soffermarmi su un tema quanto mai scottante per quando il vino approderà in bottiglia: i tappi. Lo spunto mi è venuto nei giorni scorsi a seguito di un piacevole incontro con un vecchio amico e grande patriarca del vino langarolo.
Mi trovavo a Dogliani e mi sono imbattuto in Quinto Chionetti, autentico vigneron autore di memorabili bottiglie di Dolcetto. Classe 1925, otto decadi portate con la leggerezza che solo i grandi vecchi delle colline riescono a trasmettere, Quinto ha aperto nuovi orizzonti a una tipologia - il Dolcetto di Doglia - che oggi può contare su altri validissimi, giovani interpreti, ma che per molti anni è stato relegato al rango di vino minore nel panorama dei rossi piemontesi. Se in quegli anni difficili c’era un baluardo della qualità e dello stile, quel baluardo era Quinto Chionetti. Questa in estrema sintesi il profilo - il pedigree - del personaggio.
Ma torniamo al mio recente incontro con lui. Tra i tantissimi argomenti di cui abbiamo parlato, è presto saltata fuori la novità dei tappi che lui ha iniziato a impiegare per sigillare le sue preziose bottiglie. Me l’ha anche mostrate, queste bottiglie: hanno una particolare chiusura a vite che da un parte scongiura il temuto, ormai frequentissimo “sentore di tappo”, dall’altro dovrebbe garantire la tenuta perfetta del vino nel tempo.
Se vogliamo, la novità - che poi è tale fino a un certo punto - ha il sapore di una provocazione. Ma una provocazione bene ragionata. Negli ultimi anni la questione dei tappi è balzata agli onori della cronaca con esempi anche molto eclatanti: diverse cantine, alcune delle quali anche molto blasonate e dunque abituate a scegliere con cura i materiali di chiusura, si sono ritrovate con partite intere di tappi infetti, che in alcuni casi hanno compromesso l’annata di una o più etichette.
Il problema, del resto, è evidente: la produzione di vino - dunque la richiesta di tappi - si è ingigantita negli ultimi anni fino a raggiungere quantitativi eccezionali: impensabile che l’arte del produrre sughero riuscisse a stare dietro tale domanda senza trasformarsi in industria e senza abbassare il livello medio della qualità. Ce lo può insegnare anche un bambino: non sì può pretendere di avere dall’oggi al domani una materia prima di origine naturale, che necessita dei suoi tempi, ha i suoi ritmi di crescita e maturazione, in quantità spropositata e di qualità sempre garantita.
Così abbiamo assistito allo studio di possibili alternative al caro (sempre più caro!), vecchio sughero. L’avvento dei tappi di silicone provocò a suo tempo scalpore, e qualcuno arrivò a parlare di “scempio” della tradizione. Poi sono arrivati tappi in vetro, tappi a corona, e via con tutte le varianti del sughero classico (agglomerato, misto …), fino al tappo a vite, già molto impiegato in Francia e di cui pare si stia diffondendo l’uso anche presso di noi.
La mia non voleva e non vuole essere una disquisizione tecnica sui tappi. Piuttosto mi è parso singolare che a un’istituzione del vino di Langa come Quinto Chionetti sia venuto in mente - se non per primo, quasi per primo - di provare l’impiego di questi ultimi ritrovati della tecnica enologica.
Credetemi: vedere Quinto con gli occhietti arzilli di un bambino, intento a raccontarmi i pregi e i vantaggi di questa sua nuova soluzione, mi ha rincuorato. Spesso (ed è questa la lezione dell’amico Chionetti) i “vecchi” superano i giovani in innovazione e coraggio di provare nuove strade. Forse lo fanno perché a una certa età si vive una sorta di “incoscienza giovanile di ritorno”, o forse perché esperienza e sagacia permettono loro di vedere fin dove gli altri, arrivati dopo, ancora non possono vedere.
Come il compianto Bartolo Mascarello, tradizionalista di ferro ma mente apertissima e pronta al confronto con ogni nuovo vento che tirasse in Langa, Quinto rappresenta l’anello forte di una stirpe di vignaioli cui tutti dobbiamo rendere merito e onore, per tutto ciò che hanno fatto e continuano a fare. (arretrato de La Stampadel 3 settembre 2006)
Autore: Carlo Petrini

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