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La Stampa

“Tesori dell’umanità” ... Le Langhe del vino a caccia di una corona... L’Italia è un museo a “cielo aperto”. O se preferite un “museo diffuso”. Suo è il sei per cento del patrimonio culturale mondiale. Quando c’è un monumento, un insediamento, un sito che abbiano un valore storico mondiale, in pericolo o in via di diventarlo, si chiama l’Unesco. E’ quello che devono aver fatto ad Alba, fra piazza Duomo e piazza Savona, fra il caffè Calissano e il “mitico” Savona, perché da ieri sono state avviate le pratiche per affidare le Langhe alla tutela dell’Unesco e farle diventare patrimonio dell’Umanità. Come Portovenere, le Cinque Terre, i Sassi di Matera, il parco nazionale del Cilento, la laguna di Venezia o la Costiera Amalfitana. Le Langhe morbide, le colline dolci, le ondate di vigna che sembrano far galleggiare il lontano e maestoso Monviso, il grande Re di Pietra. Le Langhe di Tre Stelle, Barbaresco, Barolo, La Morra, di Neive, paesi dai nomi luminosi, forti e morbidi come quei vini famosi nel mondo, da Tokyo a Los Angeles, da Berlino a Londra: nebbiolo, barbaresco, barolo, barbera, dolcetto, arneis e roero.

Fame e fatica
Un territorio baciato dalla fortuna, oggi. Ma che prima di quell’“oggi” ha conosciuto la fame, la malora, la terra dura e la vigna stanca, la vita agra delle pagine fenogliane, l’orizzonte stretto dei paesi di Pavese, le mattane malinconiche degli eroi di Arpino. Era un paesaggio arcano, lento, fatto di cascina e stalla e qualche botte in cantina e tanta tenacia, estrosità, anche supponenza, dei suoi langhetti, incapaci a darsi buone strade per arrivare a Cuneo o a Torino o a Milano, ma senza imbarazzi ad attraversare gli Oceani. Ma intanto cera stato il boom degli Anni ‘60, lo spopolamento delle campagne, la chimera delle fabbriche del Nord, Lo scandalo dei vini al metanolo di Narzole, l’azzeramento d’immagine del “vino del contadino”, la cancellazione, nell’ immaginario italiano della campagna come luogo di lavoro o di piacere. Bolliti, fritti misti, vitello tonnato, tinche gobbe in carpione si mangiavano in città, nessun rimpianto per le trattorie con le tovaglie a quadri e il salame fatto in casa e la quagliata fresca, grondante di siero.

La rinascita del vino
Un mondo rimosso a due passi da casa, che continuava la sua vita, altera e un po’ sdegnosa verso quell’indifferenza, come se i confini della “provincia granda” bastassero a contenerne i sogni. Ma quella sferzata del “vino al metanolo” sembrò segnare la rinascita di un luogo per molti versi gelato nella sua bellezza e improvvidenza. Da lì ripartì la rinascita del vino e delle Langhe, del “territorio”, come si dice oggi. E a distanza si mettono insieme la gloriosa scuola enologica di Alba, lo Slow food di Carlin Petrini ieri e oggi l’Università del Gusto di Pollenzo, ma anche il premi Grinzane e poi i tanti vignaioli famosi, da Gaja a Ratti, da Rinaldi a Conterno, Mascarello, Correggia, i Damonte, i Faccenda, Hilberg-Pasquero, Bologna, Rivetti, Versano, Ceretto. Gente che cura botti e bottiglie a una a una e ti dice a quanti gradi portarle in tavola e in che dimensione di bicchiere devi bere il loro vino...
(arretrato de La Stampa del 21 ottobre 2006)

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