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La Stampa

“Quando brindavamo insieme alla quieta follia dei piemontesi” ... “Ma sai che ogni mattina che mi risveglio io dico grazie”. Sbottò così Lauzi, in una di quella sere speciali in trattoria, a “barliccare” qualcosa e a raccontarci la vita. Era un positivo, non ci sono dubbi, un uomo che aveva un’idea positiva, pur dentro al dramma della vita che, meglio delle canzoni, ha raccontato in quelle poesie pubblicate sotto la raccolta “Mari interni e Riapprodi”, dove l’idea della fine era presente in ogni sua riga. Conobbi Lauzi una sera a Milano, alla terrazza Motta vicino al Duomo.
Era il 1984 e insieme a sua moglie Giovanna, il maestro Luigi Gaviglio ci consegnava i diplomi da sommelier. “Ma tu sei di Masio?”. E si mise a ridere pensando alla storia di quel tale del mio paese che aveva organizzato una festa con Celentano (ignaro dell’ingaggio) ed era scappato con l’incasso. Per lui il Piemonte, i paesi, e in particolare Rocchetta Tanaro, dove aveva casa e dove con Giovanna s’era messo a fare il vino, erano uno strano Brasile che ogni giorno metteva in scena la strana follia dei Piemontesi. Scrivemmo un libro su questo: “Della quieta follia dei piemontesi”, dove Lauzi provò a raccontare la straordinaria quotidianità dipanata dal sindaco buono come dal matto del paese che suonava i campanelli e nessuno si arrabbiava. Fu stregato da Rocchetta Tanaro, fu stregato dalla vitalità, dove persino il medico, Paolo Frola, è un cantautore estroverso e la banda suona la frusta. Un giorno bussò a casa sua Giacomo Bologna, il vate della Barbera e gli disse da uomo a uomo, come si fa tra Piemontesi: “Di a la to’ dona ca l’ha da fè ‘1 vin” (“Di alla tua donna che deve fare il vino”). Obbedì, e Giovanna fece la Barbera Celesta, sulla colline della Valle dei Fieni. Il primo anno fu un trionfo e Lauzi sottolineava sempre che il conte Riccardi gli aveva mandato un telegramma ed Edoardo Raspelli aveva scritto che davanti al suo vino era finalmente Natale. Quando scopri di avere il morbo di Parkinson la prese con ironia e un giorno esordì al Mama Cafè di Milano con un poesia tenerissima: “La mia mano sfarfalla, bestiola spaventata”. Non si fermò neppure davanti al suo fegato malandato e coi ragazzi del gruppo ha continuato fino all’ultimo a fare concerti... e a chiamarmi al telefono per sapere dove andare a mangiare. Aveva una voce bellissima, come un di più che lo ritrae negli ultimi tempi. L’estate precedente a Masio m’aveva cantato “Il poeta”, perché come per lui anni prima a Rocchetta, era il giorno della cittadinanza onoraria.
Nel frattempo, in questi bellissimi venti anni dentro al mondo del vino, avevamo fatto insieme talk show e convegni, forse un centinaio o di più. Ma quel Poeta che aveva scosso i cuori della gente portando la standing ovation, mi fece piangere. Come l’altro giorno quando accortomi del silenzio del cellulare da un po’ di tempo ho chiamato e ha risposto Giovanna: “Dice che è pronto”. Amava la vita, con arguzia, ironia, passione e poesia e sapeva in cuor suo che doveva dire grazie ad un dio. Nel libretto che scrivemmo insieme, il racconto più tenero è proprio quello sull’esistenza di Dio: “D(io) e il peperone. Solo un Creatore - scrisse - poteva pensare alla bellezza del peperone: Sì, ma la carota, e il pomodoro?”. “Ah già, allora vedi che Dio esiste?”.
(arretrato de La Stampa del 28 ottobre 2006) 

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