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La Stampa

L’ultimo bicchiere di Tocai ... Diritto di vino. La Ue ha deciso: solo quello ungherese può chiamarsi così. Grazie alla sua storia millenaria... “È l’ultimo bicchiere di Tocai italiano”. Nei ristoranti, quando scorri la carta dei vini, ti senti ripetere questa frase dal lieve retrogusto d’apocalissi. Qualche bottiglia ancora si trova. Ma siamo alla fine. Dal 31 marzo, infatti, il Tocai friulano è costretto all’eutanasia da una sentenza della Corte di Bruxelles. L’unico autorizzato a chiamarsi “tokaj” è quello che arriva dall’Ungheria, dall’omonimo paese sul confine con la Slovacchia. Tutti gli altri vini apocrifi, alsaziani, slovacchi, sloveni, ucraini, sono cancellati.
Per gli italiani la decisione è stata dolorosa. Hanno cercato di opporsi sostenendo che il “tocai” e il “tokaj” si pronunciano, sì, allo stesso modo, ma sono completamente diversi.
L’ungherese è un passito, liquoroso, forte, niente a che fare con quello italiano. Niente da fare. Per la Corte di Bruxelles l’indicazione geografica deve essere tutelata come per il Parmigiano o il Chianti. Al di là della diatriba nazional-enologica, il tokaj è però un pezzo di storia culturale ungherese, tant’è che persino l’Inno nazionale di Kolcsey gli rende omaggio. E secondo la leggenda il mitico capo Arpad, che guidò i connazionali nelle pianure pannoniche nell’896 (la famosa “Occupazione della patria”), rimase colpito dalle dolci colline coperte di pampini e le regalò al suo fedele guerriero Turzol (oggi c’è un paese, Tarcal, che lo ricorda).
Naturalmente i feroci magiari, appena arrivati dalle steppe, capaci solo di fare benissimo la guerra, con le viti erano ignoranti. Nel giro di un secolo si convertirono (un po’ re calcitranti, a dire il vero) al cristianesimo, impararono a sudare dissodando la terra, e appresero le arti del vino da monaci e contadini stranieri. Tra i fiumi Tibisco e Bodrog, in mezzo a resti di vulcani, nacquero ottimi nettari. Nel Medioevo qualcuno incominciò a dire che i vini di Tokàj erano gialli perché succhiavano l’oro dal terreno. Galeotto Marzio, un letterato che s’attirava i fulmini dell’Inquisizione e consigliava come curare la sciatica, avallò la leggenda. Paracelso si recò apposta in Hungaria a esaminare il vino, le zolle, ed escluse la presenza del nobile metallo.
Le prime istruzioni scritte per la preparazione del vero “tokaji aszu” (il passito di Tokaj; quella “i” in fondo al nome, in ungherese, serve a formare l’aggettivo, “di Tokaj”) sono opera di un prete, nel 1630. Si chiamava Méte Laczkò Sepsy e amministrava le terre di una nobildonna famosa per mecenatismo e patriottismo. Un anno si ritrovò senza uomini per la vendemmia, perché impegnati contro i turchi. I grappoli, coperti di muffa, avevano un aspetto orribile. Ma lui non si perse d’animo e, quando i contadini tornarono dalla guerra, fece preparare il vino, anche se era novembre inoltrato. Le botti vennero celate in grotte scavate nel tufo, per nasconderli alle soldataglie austriache e turche.
Lì dentro, grazie all’umidità, al “Botrytis Cinerea” (fungo che attacca la buccia degli acini), allo speciale microclima, si trasformò in un prelibato vino liquoroso. E dato che per entrare nei penetrali occorreva piegarsi, quasi fosse un gesto di umiltà, nacque il detto: “di fronte al tokaj bisogna sempre inchinarsi”. Ad aumentare la fama del vino contribuì la solita sfortunata, volontà d’indipendenza magiara.
Ferenc Rékòczi II, principe transilvano, cercò nel Settecento di ricostruire la grandezza dell’Ungheria, stipulando accordi con i turchi e guerreggiando contro gli Asburgo. Per un po’ le cose gli andarono bene, poi arrivò inesorabile la sconfitta. Fu costretto a ritirarsi in esilio in Francia, da Luigi XIV, suo grande sponsor. Un giorno fece assaggiare il tokaj delle sue terre lontane e perdute al sovrano francese. Il Re Sole sentenziò: “Re dei vini, vino dei re”. Il giochetto di parole fu un ulteriore sigillo di fama internazionale.
Il tokaj piaceva ai ricchi, che potevano permetterselo. Ai medici e agli alchimisti, che pensavano fosse più taumaturgico d’una aspirina. E ai poeti, persino a Goldoni (che però sbagliò a citarlo, chiamandolo imperdonabilmente “tokay germano”), o al grande Petofi, che frequentava le bettolacce per ascoltare i racconti del popolo e non era certo avvezzo a liquidi eccelsi. Consci che il tokaj fosse prezioso (veniva addirittura accettato come moneta negli scambi internazionali), gli ungheresi cercarono subito di proteggerlo.
Molto prima dei tribunali Ue, il principe Rakoczi fece un decreto per classificare - prima volta al mondo - i vigneti secondo categorie di qualità e delimitare rigorosamente la zona d’origine. E qualche tempo dopo, nell’Ottocento, il conte Széchenyi prese ad esempio anche il tokaj per chiedere più onestà e più coraggio imprenditoriale ai suoi connazionali Széchenyi - per inciso - è stato un grande padre della patria: fece costruire il primo ponte di Budapest, regalò le sue ricchezze e la sua vita al Paese poi, dato che l’ingratitudine dei popoli verso i loro benefattori è destino naturale, venne alla fine spernacchiato, spinto al manicomio e al suicidio. In uno dei suoi pamphlet, Il credito, scritto per spronare l’Ungheria a diventare moderna e competitiva, chiedeva strade, banche, riforme liberali. Voleva che i mercanti pensassero alla qualità e all’onore, non al guadagno facile.
E denunciava con orrore che c’era più mosto siriano nelle botti di Tokaj, per tagliare i prodotti locali, che nei magazzini di Damasco. E nel vino, per lo meno nel vino,ci deve essere sempre verità.

Non solo vigne
La regione di Tokaj-Hegyaljà si trova a circa 200 chilometri da Budapest, sul confine con la Slovacchia. I vigneti vengono coltivati su una superficie di 6.600 ettari, alla confluenza tra il Tibisco e il Bodrog, in 27 villaggi e paesi. Le varietà più famose di tokay sono l’aszu, il furmint, il szamorodni, l’hàrslevelù.

L’Himnusz ungherese è stato scritto da Ferenc Kòlcsey e musicato da Ferenc Erkel. Nel canto, che inizia con “Dio, benedici gli ungheresi”, si celebrano le antiche glorie contro gli ottomani e Vienna, e anche la generosità del sacro suolo: “Di Cumania sui terren/ Mèssi ricche fai fiorir, / Dolce nettare Tu dai! alle viti di Tokaj”.

Sàndor Petòfi, che morì in battaglia contro gli Asburgo per la libertà dell’Ungheria nel 1848, rende omaggio al tokaj: là su quelle colline, diceva, abitano gli Dei della gioia, e spediscono in giro per il mondo i loro apostoli, fiamme dorate chiuse nei fiaschi, perché predichino ai popoli che la terra non è solo un valle di lacrime.

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