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La Stampa

Le colline tra vigne e cemento ... “Le Langhe patrimonio dell’umanità”. Ma i cantieri assediano il paesaggio... Sarà la prima candidatura a macchia di leopardo nella storia dell’Unesco, il primo esempio di proposta a omissis. Omissis sui capannoni e sulle villette in paramano, sulle colate di cemento nei fondovalle e sulle stramberie di colori e forme in cima alle colline, per far risaltare in tutto il loro splendore luoghi straordinari segnati dalla mano dell’uomo.
Scriveva Cesare Pavese nella “Luna e i falò”: “Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore”.
Una citazione da tenere a mente, ora che i paesaggi vitivinicoli tipici del Piemonte si candidano ufficialmente a diventare patrimonio dell’Umanità come la zona dell’Alto Douro in Portogallo, i vigneti dell’isola vulcanica di Pico nelle Azzorre, la zona del Tokaj in Ungheria, quella di Saint Emilion in Francia, la valle del Medio Reno in Germania e la Vai d’Orcia in Toscana.
Langhe, Roero, Monferrato e Astigiano cercano di conquistare una poltrona nel club più esclusivo, ma l’intesa firmata ieri tra il Ministero per i Beni e culturali, la Regione Piemonte, le Province di Alessandria, Asti e Cuneo indica una strada medita. I promotori parlano di aree di eccellenza e di aree tampone, necessarie per collegare un sito con l’altro. E dicono che la candidatura sarà un’esperienza interessante di pianificazione, gestione e tutela comune del paesaggio, nonché l’occasione per riqualificare alcune zone. Dopo aver applicato in anticipo lo stile veltroniano - “candidiamo le Langhe a patrimonio dell’umanità, ma anche il Roero, ma anche il Monferrato, ma anche l’Astigiano” - allargando così il territorio a dismisura, adesso corrono ai ripari per non andare incontro a un insuccesso.
Per esempio, si chiederà all’Unesco di promuovere gli straordinari vigneti del Barolo, ma di chiudere un occhio sulle distese di fabbriche e magazzini a valle; di premiare le cattedrali-cantine sotterranee di Canelli, ma di sorvolare sui suoi condomini all’aria aperta. D’altra parte, i turisti che a decine di migliaia arrivano nel Sud Piemonte sono già allenati a queste altalene di emozioni e delusioni: a Grinzane Cavour, per salire al castello del conte Camillo Benso dove oggi c’è la più importante Enoteca regionale, occorre attraversare in apnea un’area industriale che rischia di essere ancor più sacrificata al cemento con altri 30 mila metri quadrati di capannoni. A Barolo c’è il castello della Volta, del 1200, che va in rovina. E a due passi è spuntato un suo antagonista in perfetto stile disneyano.
Il panorama in cui si inserisce la candidatura Unesco è complesso. Da una parte ci sono le attività produttive, ossia la spina dorsale dell’economia di un territorio operoso, che nell’Albese è addirittura diventata più volte internazionale. Dall’altra c’è il paesaggio naturale e agricolo, garante della genuinità dei prodotti e forza attrattiva per il turismo. Rinunciare all’utilità delle prime è impossibile. Abbandonare la bellezza delle seconde è un suicidio.
Senza contare il fascino di vini e paesaggi letterari. Da una parte il Barolo e il Barbaresco, l’Arneis, il Barbera e il Moscato. Dall’altra Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, Giovanni Arpino e Davide Lajolo. Basterebbero questi nomi per far cambiare idea a chi ancora pensa alle Langhe, al Roero e al Monferrato come terre esclusivamente della buona tavola. Basterebbe lo stupore del protagonista di “Paesi tuoi” - “Siamo in mezzo a due mammelle, dico; qui nessuno ci pensa, ma siamo in mezzo a due mammelle” - per trovare la chiave di lettura tra i sentieri che scorrono nelle vigne e risalgono i crinali.
Ma i commissari dell’Unesco non si accontentano della poesia. Vogliono piani di tutela e dimostrazioni della volontà di conservare al meglio ciò che la natura e il lento lavoro dell’uomo hanno creato. Perché anche un ottimo Barolo prodotto in una terra sempre più brutta sarebbe un po’ meno buono.

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