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La Stampa

Vino, la carica cinese crescita record dei vigneti ... Pechino raggiunge la somma di quelli di Usa e Australia... Parlare di un “pericolo Cina” sul mercato internazionale del vino è, probabilmente, prematuro anche se i numeri descrivono una crescita esponenziale dei vigneti:
nel giro di dieci anni le superfici dedicate alla produzione del vino sono aumentate del 200%. Dal 1998 ad oggi i vigneti cinesi hanno raggiunto la stessa espansione di quelli di Australia e Stati Uniti messi insieme, cioè del quarto e del quinto produttore di vino al mondo.
Nei prossimi anni si vedrà se il vino made in China avrà la forza di espandersi in un mercato sempre più globale e dominato, almeno secondo il guru Hugh Johnson, da un “unico trend mondiale che tende verso la definizione e la raffinatezza”. Vista l’esperienza in altri settori produttivi è chiaro che Pechino farà di tutto per sfruttare il suo ruolo di competitor, legato ai bassi costi di produzione e ad una capacità di espansione territoriale praticamente senza limiti e non ancora oggetto di contingentamenti di sorta. Soprattutto i produttori cinesi cercheranno di conquistare il mercato interno che, secondo le previsioni del rapporto di Nomisma sul “Wine marketing”, presentato nei giorni scorsi a Verona, nel 2011 dovrebbe essere in grado di assorbire un miliardo di bottiglie.
Già, perché la ricerca di Nomisma fa emergere “un profilo nuovo di vino nel mondo e cioè di una bevanda globale consumata anche al di fuori dei confini dei paesi produttori”. Esempi? “A Mumbay i medici consigliano il vino al posto del whisky, mentre sempre più spesso i ricchi a Mosca lo preferiscono alla vodka”. E poi ci sono gli Usa che nel giro di due anni diventeranno i maggiori consumatori di vino superando Francia e Italia dove il consumo è in calo. Negli States oggi si consumano 26 milioni di ettolitri contro i 27,3 di Roma.

Il mercato internazionale, dunque, è in continua evoluzione. In questo contesto l’Italia mantiene le posizioni con la propria quota sul mercato mondiale che è rimasta invariata: il 18 per cento dell’export mondiale dieci anni fa, il 18 per cento oggi. Meglio della Francia, che passa dal 42 per cento al 35 e favorisce soprattutto l’Australia (9 per cento) assieme ai nuovi produttori cioè Cile, Usa, Sud Africa, Nuova Zelanda la cui quota passa è raddoppiata passando dall’11 al 22 per cento.
Ciò che cambia per l’Italia, e di molto, è invece il valore dell’export, la cui crescita è stata esponenziale grazie alla produzione di qualità e all’affermazione del proprio brand: negli ultimi 12 anni le esportazioni sono praticamente raddoppiate e il valore del 2007 si è attestato sui 3,4 miliardi di euro. Resta da capire quali saranno gli effetti della vicenda Brunello e del vino sofisticato. Finora, infatti, il successo italiano si è giocato sull’asse qualità e immagine. Da questo punto di vista qualcosa si può fare. Nomisma, ad esempio, sottolinea come l’Italia sia priva di un piano strategico nazionale, che invece è presente in tutto lo scacchiere competitivo mondiale”.
Il gioco di squadra invocato dal ministro delle Politiche Agricole, Paolo De Castro, per “contrastare qualche malfattore” può partire da questa sollecitazione anche se l’elaborazione di quel piano non è facile come riconosce Nomisma “anche a causa di una struttura produttiva e commerciale estremamente frazionata e perciò difficile da inquadrare in una strategia settoriale”.

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