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La Stampa

L’Indiana Jones del vitigno perduto … Un produttore trova e fa rivivere le uve del “Dorona”. I filari in uno spicchio dell’isola di Mazzorbo… A caccia dei vecchi sapori di Venezia ne era rimasta traccia, sì. Negli archivi, in qualche filare disperso nelle isole della laguna, nel ricordo dei più vecchi. Ma la Dorona, quell’uva dai chicchi dorati e generosi, aveva ceduto da tempo il campo a prodotti più adatti alla produzione su larga scala. Poi, un giorno, un uomo che di vino se ne intende perché ai vigneti il nome della sua famiglia è legato dal 1543, è arrivato in una di quelle isole. C’erano un antico muro di mattoni, un campanile a fare da vedetta, un cancello di legno chiuso da chissà quanto, che alla pressione della sua mano si è aperto: «Una visione. Davanti ai miei occhi c’era un vigneto abbandonato ma ancora vitale: era uva Dorona, e ho capito che il suo tempo era tornato». Lui è Gianluca Bisol, 42 anni, responsabile marketing di un’azienda che unisce tutti i discendenti della famiglia (il padre, lo zio, un fratello, due cugini) e il cui nome compare sulle etichette di un vino d’alta fascia, prodotto in 100 ettari di terreno sulle più belle colline trevigiane intorno a Valdobbiadene. Cartizze, Prosecco, un Passito che è figlio di quindici annate: figurano nei migliori ristoranti del mondo, nelle feste hollywoodiane e sulle tavole di chi sa bere bene. E’ lui, questo manager che ama le cose semplici della vita e che inizia le giornate alle 7-30 con una nuotata nella piscina comunale della sua città, l’Indiana Jones del vitigno perduto. Ha deciso che l’uva Dorona rinascerà, e tornerà a dare il vino: sarà un bianco dalle caratteristiche organolettiche uniche, minerale, sapido, con addosso tutti i profumi portati dall’acqua e dai venti della laguna. Il progetto è già avviato, assieme alla società Vento di Venezia di Alberto Sonino, che curerà tutta la parte logistica. Il destino ha fatto la sua parte: mentre Gianluca Bisol aveva già commissionato uno studio storico sulla Dorona, e raccolto di isola in isola un centinaio di tralci da riprodurre, mentre riusciva a produrre con la collaborazione dei contadini quel po’ di uva sufficiente per una microvinificazione, ecco - era il 2007 - che il Comune di Venezia emette un bando per assegnare proprio quel terreno - poco meno di due ettari - nel quale lui era capitato per caso due anni prima: uno spicchio dell’isola di Mazzorbo, contigua alla più famosa Burano. “La concorrenza era forte: per l’assegnazione partecipavano 12 tra enti e associazioni. C’erano Legambiente, la Camera di Commercio. Hanno scelto noi, forse convinti da quello studio che avevamo già preparato, dall’idea di fare di Mazzorbo un’isola del gusto”. Il vitigno è stato piantato, ogni quindici giorni una squadra di operai parte dall’azienda trevigiana per raggiungere l’isola ed effettuare la manutenzione; la prima vendemmia sarà nel 2010, le bottiglie arriveranno sul mercato nel 2011. Saranno 8 mila e molte sono già prenotate da collezionisti che non si sono persi le prime dichiarazioni rilasciate da Bisol al Salone del Gusto di Torino. “Il vino si chiamerà Venissa, in omaggio ad Andrea Zanzotto che anche con questo nome indica, nei suoi scritti, Venezia; è un modo per stringere un legame ancora pi forte tra le nostre colline e la laguna”. Sarà una sfida tra la terra e il mare, con l’uomo che difende le sue coltivazioni dall’acqua alta, e sfrutta i venti per i profumi che portano e per l’azione disinfettante che esercitano sul vigneto. A Mazzorbo ci saranno anche un ostello, dove si potrà dormire a prezzi calmierati, e un ristorante a buon prezzo che sorgerà sulla ristrutturazione di una rimessa. Si chiamerà “Paola Budel per Jada”; Jada è il nome di una linea di prodotti gastronomici creata da Laura Ongaro, moglie di Gianluca Bisol; Paola Budel è la chef che già oggi collabora con l’azienda trevigiana e che celebra la cucina di territorio. E’ capace di portare in tavola anche i modi di dire, giura Bisol: “L’altra sera ha cucinato per me un brodo di giuggiole, non sapevo nemmeno che esistesse. Adesso che lo ho assaggiato ho capito perché è diventato un detto popolare”.

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