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La Stampa

“Adesso ci serve una lobby permanente che ci tuteli a Bruxelles” ... Il produttore Angelo Gaja: dobbiamo espanderci su mercati emergenti di Asia e Sud America... Dalla cima della piramide le sfide dei grandi numeri, a colpi di milioni di ettolitri, arrivano ovattate. Angelo Gaja sa che nella fascia altissima del mercato sono ancora pochi i marchi che competono ad armi pari con i francesi. Alcuni dei più blasonati, da Mouton-Rothschild a Chateau Margaux, li importa la sua società in Italia, accanto ai famosi bicchieri di cristallo della Riedel. Tra le etichette italiane che non temono i Transalpini c’è la sua: bianca con la semplice scritta Gaja in una fascia nera. Imitata da molti e perfino copiata da qualche falsario.

Che effetto le fa?

“Dico sempre che dobbiamo farci perdonare il successo, ma aggiungo che i meriti di immagine del vino italiano li dobbiamo condividere con molti altri produttori artigiani che hanno creato un sistema ricco di storie, passione e impegno. E abbiano avuto enologi straordinari, gente come Ratti o Tachis che hanno contributo al rinascimento”.

Lunedì a Palermo per ascoltare una sua lezione e degustare i suoi vini c’erano i più famosi produttori di Sicilia e decine di appassionati che hanno pagato 60 euro a testa.

“La qualità non è un optional e costa. Il nostro impegno è farla riconoscere. Mostro una diapositiva con John Wayne e dico che lui è come certi cabernet: forte, prestante, sorriso sicuro, sai già come andrà a finire. I nostri vini invece, a cominciare dal nebbiolo sono come Mastroianni, più introversi, un po’ timidi, tipi non facili, ma in quanto a fascino...”.

Bell’esempio, ma come si muove il mercato?

“Tutti i comparti enologici hanno avuto una contrazione negli ultimi due anni, ora si sente un lieve ripresa. Noi non abbiamo proposto sconti o offerte speciali. I mercati oggi sono sempre più segmentati ed è importante trovare e mantenere la giusta collocazione”.

Dicono che la salvezza del vino italiano sia nell’export.

“Oggi parlerei più di Europa nel suo complesso che di sola Italia. Il mercato va da Stoccolma a Madrid. C’è ancora spazio per crescere in molti Paesi, ma soprattutto bisogna intercettare la nuova domanda che sta lievitando in Asia e Sud America. Gli statunitensi favoriti dalle loro grandi catene alberghiere stanno entrando in questi mercati, noi italiani ci dobbiamo affidare alla ristorazione, ma non basta il nome sull’insegna per fare della buona cucina italiana. Dobbiamo creare giovani chef, aprire scuole all’estero, offrire stage formativi. Va dato valore al denaro pubblico e invece di disperdere finanziamenti in tante piccole ed autoreferenziali promozioni a singhiozzo concentriamo gli sforzi e controlliamo i risultati. L’italia è cucina, arte, natura, paesaggi, vino: sono richiami che debbono essere presentati insieme”.

Lei ha 71 anni, moglie e le due figlie già in azienda e il terzogenito che ancora studia. Il futuro di Gaja?

“La famiglia è un valore. Noi siamo alla quinta generazione. Ho portato avanti il lavoro di mio padre e spero continueranno i miei figli. In Piemonte siamo volutamente fermi a cento ettari attorno a Barbaresco e 350 mila bottiglie. In Toscana abbiamo investito a Montalcino e Bolgheri con la stessa filosofia, rispettando i territori. Io non vado in pensione, ma non escludo che in futuro le mie figlie decidano di essere presenti anche in Francia o in Spagna da dove è originaria la nostra famiglia. Chissà. Bisogna pensare a difendere la culla culturale del vino europeo”.

Lei auspica lobby del vino?

“A Bruxelles dove si formano le regole comuni di mercato e in ogni altra importante piazza mondiale il vino deve avere i suoi rappresentanti diretti invece di certi interessati politici che passate le elezioni si dimenticano le promesse”.

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